martedì 31 ottobre 2006

Paesaggi

Sono passati ormai sei anni dalla sottoscrizione della Convenzione Europea del Paesaggio da parte dei paesi membri del Consiglio d’Europa e, anche se non sono in molti ad essersene accorti, quella firma ha rappresentato una vera rivoluzione. L’articolo IX della Costituzione sanciva già l’importanza del paesaggio e l’impegno della Repubblica a difenderlo, ma che succedeva quando ci s’interrogava sul significato della parola “paesaggio”? Prima della Convenzione la definizione giuridica era quella che si può ricavare dalla legge 1497 del ’39 che dice che ad essere oggetto di tutela oltre a cose immobili di notevole interesse e a ville, giardini e parchi di non comune bellezza sono i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale e le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze. Si tratta di una definizione che paga un tributo al Romanticismo e che comporta la creazione d’elenchi di beni, d’aree o di scorci da tutelare e di procedure per la loro compilazione.
Per la Convenzione, il paesaggio è invece un elemento fondamentale per la qualità della vita e pertanto non si pone il solo problema della protezione delle aree di pregio, ma anche del recupero di quelle degradate. A tutti noi insomma viene riconosciuto, almeno in via di principio, il diritto a vivere in un ambiente piacevole.

Il processo d’elaborazione che ha portato alla Convenzione, s’inserisce nel quadro dei contradditori processi di globalizzazione a cui stiamo assistendo, e dalle due principali e contrastanti tendenze che in esse agiscono: la prima che va verso la creazione di un mercato unico mondiale e ad un conseguente omologazione di gusti e offerte, la seconda che, all’opposto, va verso il recupero delle specificità locali, patrimonio straordinario di differenze e, quindi, di creazione di valore.

Il paesaggio è al tempo stesso il fondamento e il risultato dell’identità di un territorio e di coloro che lo abitano. E l’identità è l’anima di un prodotto, la ragione per cui si vende o no.
Mi si dirà che l’anima del prodotto la fa il brand e la natura del brand è quella di una narrazione che deve cercare di trascendere i localismi se vuole trovare spazio in un mercato sempre più globalizzato, finendo così per imporre o, più spesso, per adattarsi ad un gusto e ad un’idea della vita buoni in ogni parte del mondo.
C’è senz’altro del vero in questo, ma gli uomini sono per loro natura animali irrequieti e curiosi che male si adattano a vedere la propria vita incasellata in formule anguste che pretendono di essere adatte a tutti gli abitanti del pianeta. Così, spesso una risposta all’invasione dell’omologazione globale viene cercata in una difesa acritica e indiscriminata di valori locali a cui viene attribuito un valore spesso eccessivo solo in virtù del fatto di essere lontani da quelli globali.

E qui accade la catastrofe, perché fra i pomodori appesi sulle pareti bianche di calce e i nastri trasportatori dell’ILVA c’è uno iato che sembra incolmabile. C’è quella che sembra l’inadeguatezza delle tecnologie del vivere che hanno dato forma al nostro paesaggio di fronte alla modernità.
Per sopravvivere il nostro paesaggio sembra non avere alternativa a quella di trasformarsi in attrazione turistica e quindi trasformarsi nella parodia di se stesso.

Il paesaggio (e con lui le nostre aspirazioni ad una buona qualità della vita) insomma corre un doppio pericolo: stritolato da un lato da modalità di vivere e da mode sempre più eguali che stanno trasformando il pianeta in una sconfinata periferia e dall’altro, quando viene ridotto a santuario intangibile, al rischio di museificazione e quindi alla morte. Perché il paesaggio è figlio a sua volta di una doppia azione: quella dell’uomo e quella della natura. Se all’uomo viene impedito di agire anche il paesaggio muore.

Forse possono sembrare ragionamenti astratti, lontani dai problemi d’ogni giorno, ma non è per niente così. Accettare che i nostri luoghi vengano privati della loro anima e trasformati in non-luoghi, significa non poter trasferire alle nostre produzioni quell’anima e farli diventare uguali a tanti altri prodotti che trovano collocazione sul mercato solo grazie a prezzi sempre più bassi. E, d’altra parte, rifiutare la sfida che viene dalla globalizzazione significa averla già persa a priori.

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