martedì 13 marzo 2007

Di piccoli e grandi smarrimenti (cominciando da Lost)


Se siete appassionati di serial televisivi probabilmente non ve ne sarete persi una puntata. Se invece, non amando il genere, non ne aveste mai sentito parlare, vi basti sapere che Lost racconta le avventure di un gruppo di sopravvissuti allo schianto di un aereo, che si ritrovano su un’isola sperduta da qualche parte fra Sydney e Los Angeles.
La narrazione va dunque ascritta al genere “naufragi” e, pertanto, posta in compagnia di precedenti numerosi e famosi come l’Odissea e il Robinson Crusoe, i Viaggi di Gulliver o le Avventure di Sinbad il marinaio.
Con una differenza non di poco conto, però: per Ulisse e Sinbad il perdersi era un rischio quotidiano e una cosa piuttosto semplice, tanto poco sapevano del mondo. I pochi segni tracciati dagli incerti geografi del loro tempo non riuscivano a contrastare lo sconforto provocato dalla presenza di tanti spazi lasciati bianchi sulle enigmatiche carte che avrebbero dovuto guidarli. Un’onda più alta, un errore nel decifrare il colore del vento ed ecco che si spalancavano, enormi, gli spazi dell’ignoto.
I protagonisti di Lost, invece si perdono in una inaspettata enclave all’interno di un mondo completamente noto, civilizzato e scrutato palmo a palmo dagli occhi elettronici dei satelliti, finendo in uno di quei posti che ci piace immaginare che ancora esistano, non sapendo proprio arrenderci all’evidenza di un pianeta definitivamente visitato, senza più alcun luogo privo delle tracce di impronte umane e della nostra immondizia ormai onnipresente.
Ma se Robinson agli inizi del Settecento, semplicemente scostandosi dalle vie note, poteva imbattersi nell’ignoto assoluto, nel totalmente alieno, in un mistero fisico e tangibile, i protagonisti del serial in questione per perdersi hanno bisogno di una potente tecnologia avversa che li fa precipitare in una realtà soprattutto interiore, dove si ritrovano faccia a faccia con i propri fantasmi.
La via tecnologica allo smarrimento metafisico è una condizione umana piuttosto recente, forse per la prima volta decifrata da Stanley Kubrick nel film 2001, Odissea nello spazio, proprio negli anni in cui, e non a caso, apparivano le prime foto dell’intero pianeta prese dallo spazio. Le prime foto, cioè, in cui la Terra era vista dal di fuori e in cui appariva per la prima volta come definitivamente separabile dall’umanità. Gli anni in cui cominciava a maturare l’idea di un pianeta troppo piccolo che Google Earth oggi ci fa apparire addirittura come un oggetto manipolabile a colpi di mouse.

Perdersi oggi è diventata una cosa assai complicata – addirittura impossibile secondo Franco La Cecla al cui bel libro Perdersi. L’uomo senza ambiente rimando il lettore – se per perdersi non intendiamo il semplice smarrirsi fisico ma uno sconvolgimento mentale dovuto allo stordente manifestarsi dell’ignoto, una esperienza di impotenza totale che precipita chi ne è vittima nel timor panico. Eppure quella esperienza non era invece infrequente, ma anzi potenzialmente quotidiana, fino a non molti anni fa qui da noi nel Sud. Ancora negli anni Cinquanta, ci racconta Ernesto De Martino, i contadini delle nostre parti che venivano allontanati troppo rapidamente, con uno spostamento in auto, dai territori che conoscevano e che erano per loro una sorta di proiezione della proprio essere, una geografia di pietre e di sentimenti, di piante e di emozioni, di strade e di saperi, entravano in uno stato prossimo alla catatonia: «perdita della presenza» la chiamava l’antropologo.
Il non raccapezzarsi più fra i vicoli e le piazze di un centro storico o il non riuscire più a trovare la strada dell’albergo in una città straniera non sarebbero un vero perdersi.
Per perdersi occorrerebbe infatti molto di più: smarrire ogni certezza per trovarsi così di fronte all’ignoto assoluto. Che però non esiste più, perché tutto il mondo ormai declina lo stesso linguaggio e articola nello stesso modo le forme della proprietà e i modi di negoziazione sociale.
La logica della rappresentazione della merce è pressoché la stessa in tutti i supermercati del mondo. Le grandi catene di alberghi restano indifferenti alle differenze continentali e propongono in ogni hotel del gruppo la stessa architettura e lo stesso arredo. I marchi dei prodotti formano un linguaggio universale.
Abbiano ricoperto il pianeta di manufatti, di strade levigate e di cartelli indicatori e, se non bastasse, abbiamo infine inventato il navigatore satellitare: ci siamo un po’ alla volta abituati ad abitare in un «piccolo mondo semplice», come lo definisce Ian Stewart, e ora ci aspettiamo che tutto vada come noi vogliamo, che le luci si accendano con un click, che faccia caldo o fresco a seconda delle nostre voglie, che ci sia cibo sempre disponibile con poca fatica, acqua fresca nel frigo, musica a comando.
Generata ormai solo dal nostro desiderio, senza che nulla riesca ormai ad opporsi, la realtà prende la forma di percorsi certi, di piani d’appoggio lisci e paralleli al suolo, di palazzine dalle linee di semplice geometria euclidea, al punto che sembra aver finito per cancellare dalla nostra vita e dalla nostra coscienza la complessità e l’enigmaticità del mondo, nello stesso modo in cui l’argine in cemento, fatto per contenere un fiume ed imporgli un ordine, finisce per ucciderlo.
Eppure, a me pare, man mano che le cose diventano sempre più eguali dappertutto, man mano insomma che l’omologazione avanza, che il mondo si sfarini in altri innumerevoli mondi che avrebbero potuto essere, e che in effetti sono, anche se solo per lo spazio di poche esistenze nascoste dietro il velo delle nostre certezze. Si creano, insomma piccole enclavi o sacche, in cui la vita evolve in piccoli sistemi indipendenti, per un tempo più o meno lungo e in modi inaspettati, come immunizzata, almeno parzialmente, dal contagio globale.
Sono questi luoghi in cui si affermano modi inaspettati di autoproduzione, il bricolage del recupero, si praticano tecniche di sopravvivenza urbana, si effettua un riciclo inaspettato dei beni, si praticano usi diversi del territorio.
Questi spazi devianti si moltiplicano man mano che i racconti che ci facciamo sul mondo non riescono a dare spiegazioni sufficienti, man mano che la promessa di sviluppo e di ricchezza futura su cui si fonda la nostra civiltà mostra la corda. Così quegli spazi diventano oggi, in un certo senso, quello che una volta erano i boschi, luoghi in cui germina incontrollata la vita.
Luoghi che suscitando il dubbio e possono stimolare in noi il senso del mistero, solo se volessimo guardare per scoprire dove margini e periferie non sono semplicemente luoghi fisici ma, piuttosto, categorie dell’anima.


Al quarto piano il tempo si era fermato trent’anni fa. Le due vecchie zitelle avevano abbassato gli scuri della loro coscienza, non avevano più visto un telegiornale, ma chiuso i varchi ad ogni pubblicità che trattasse di tutte quelle cose che ritenevano inconciliabili col proprio modo di essere. Come peraltro facciamo tutti noi. Ma per loro il numero di queste cose cresceva di giorno in giorno, come peraltro accade a tutti noi.
Oggi che l’appartamento viene svuotato, con quale furia la contemporaneità si avventa su quei luoghi che sembravano ignorare lo scorrere delle lancette! I vecchi soprammobili vengono ammucchiati, il letto dalle spalliere d’ottone smontato e mandato da un rigattiere che lo rivenderà come oggetto d’antiquariato, per diventare, da oggetto d’uso quotidiano che era, una citazione. La stessa sorte subiranno i centrini e i vasi, tutte quelle povere cose saranno trasformate in rifiuto o simulacro: non c’è scampo.

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