venerdì 2 gennaio 2009

Boltzmann a Duino

(a Mario Abbattista che cerca futuri inverosimili)






A Boltzmann e al suo Principio dobbiamo la conoscenza, forse indubitabile, del mondo che, nella sua continua e ineludibile decadenza, procede dall’improbabile al certo, dall’inverosimile all’ovvio, dalla inconcepibile singolarità da cui il suo ordine ha avuto origine al caos che, di quello, è statisticamente assai più probabile; dall’inspiegabile comparsa della vita a partire da materia inerte alla morte termica che spegnerà ogni fiammella animata su questa Terra; dalla capricciosa serie di coincidenze che ha portato alla nascita di ciascuno di noi alla ritrovata regolarità che la nostra morte comporta.

Nella visione di Boltzmann l’origine dell’essere è oscuro e incomprensibile: ragione della ritrosia con cui i suoi colleghi, scienziati di un’epoca che ancora non si sentiva felicemente decadente, accolsero la sua opera. Che una assurdamente piccola possibilità, ancora più piccola di quella che io possa improvvisamente cominciare a comprendere e parlare russo e swahili o che possa cominciare a correre più velocemente di quanto non riuscissi a fare trent’anni fa, sia all’origine di tutto ciò su cui i nostri occhi stupefatti si spalancano ogni giorno implica che il caos, o peggio un dio, possa aver generato l’essere attraverso il caso.

La visione di Boltzmann è piantata nella statistica: tutto è misurato secondo curve di probabilità. E la probabilità di un evento è funzione del tempo.
Date una quantità infinita di tempo a una scimmia che a caso pigi i tasti di una macchina da scrivere e da quello sterminato ticchettio spunteranno fuori prima o poi – non può non succedere – la Divina commedia e il Don Chisciotte, i Fiori Blu e Moby Dick, Finzioni e il Barone rampante e tutte le altre opere della letteratura mondiale e le loro traduzioni in tutte le lingue e in tutti i dialetti esistenti o inventati insieme a tutti i gialli che Simenon non ebbe voglia di scrivere e ai libri persi di Anassimandro, e alle opere che non saranno mai scritte per via della limitata esistenza del genere umano oltre, naturalmente, all’umile nota che avete sotto gli occhi.
Se il tempo non esistesse l’improbabile non esisterebbe: tutto sarebbe o non sarebbe. Qualunque cosa, con una percentuale seppure infinitesimale di probabilità di esistenza diversa da zero, sarebbe.
Se il tempo non esistesse, dunque, l’essere non sarebbe improbabile, ma certo.
Ma l’essere è, ergo è possibile che il tempo non sia.
E i futuri inverosimili, allora, non sarebbero né futuri né inverosimili ma presenti qui tutti insieme dietro quest’infinito numero di angoli temporali che basta girare la testa e già li vedi.

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