giovedì 7 giugno 2007

6 metri sotto il mare


«È difficile far capire qualcosa a qualcuno il cui stipendio dipende proprio dal fatto che non capisce quello che si cerca di spiegare». Lo scriveva Upton Sinclair nel suo libro più fortunato, The Brass Check, che prendeva il nome dai gettoni di ottone, in uso nei postriboli americani ancora fino agli anni Trenta, che venivano acquistati presso i tenutari e consegnati alle prostitute in cambio delle loro prestazioni.
“Gettone d’ottone” era chiamato da Sinclair il compenso che i giornalisti ricevono in cambio di quelle che anche noi in Italia chiamiamo “marchette” e che, secondo Al Gore, per otto anni vicepresidente di Bill Clinton, sono causa ed effetto della profonda crisi democratica che attraversa gli Stati Uniti.
L’informazione è controllata dai grandi potentati economici i cui interessi fanno sì che verità scientificamente dimostrate possano non trovare lo spazio e l’attenzione che sarebbe loro doveroso riservare. È stato così per gli effetti del fumo sulla salute, certezza scientifica per decenni nascosta da carrettate di dollari sborsate dalle multinazionali del tabacco. È così oggi per gli effetti delle immissioni di gas serra nell’atmosfera che le compagnie petrolifere e, in genere, un sistema produttivo interessato esclusivamente al profitto tendono a nascondere.
Nel suo documentario Una scomoda verità, per il quale ha ricevuto due premi Oscar, Gore dimostra che la verità è assai peggiore di quanto non ci si voglia far credere: lo sconvolgimento del clima in atto richiederà un prezzo assai salato in termini di vite umane e di danni alle cose. Soprattutto, ciò che viene accuratamente evitato di raccontare, è la verità sulle conseguenze dello sciogliemmo dei ghiacci polari. Negli ultimi decenni il mare si è sollevato solo di una decina di centimetri e le conseguenze sono state sentite solo su alcune piccole isole del Pacifico che hanno dovuto essere evacuate dagli abitanti. Ma quelli che si sono sciolti fino a questo momento sono quasi unicamente ghiacci marini, ghiacci cioè che non poggiano sulla terra ferma, che, sciogliendosi, non hanno fatto aumentare il livello dei mari allo stesso modo in cui un cubetto di ghiaccio che galleggia in una bibita lascia invariato il livello del liquido mentre si trasforma in acqua. Ben altro succederà quando a sciogliersi saranno i ghiacci terrestri della Groenlandia e dell’Antartide. Anzi non c’è neanche bisogno che si sciolgano: sarà sufficiente che scivolino in mare, cosa che accadrà quando le barriere di ghiaccio marino che circondano le terre polari cederanno. Allora enormi iceberg cadranno in un mare sempre più caldo il cui livello comincerà a salire velocemente. Questo accelererà ulteriormente lo scioglimento delle barriere che lasceranno passare sempre più ghiaccio terrestre in mare.
Basterà un aumento medio della temperatura del pianeta di tre gradi per far sì che intorno alla metà del secolo tutto il ghiaccio si sarà sciolto o finito in mare.
Il livello delle acque si sarà allora sollevato di sei metri.
È difficile crederci, lo so. È difficile immaginare l’acqua che sale inesorabilmente e ricopre la Banchina San Domenico, che invade il Borgo, che sommerge la Villa comunale. Come si fa a immaginare Corso Umberto che sbocca direttamente sul mare o il Duomo semisommerso? È difficile e doloroso per me immaginare mia figlia costretta ad abbandonare la casa che fu dei miei genitori e dei miei nonni prima di loro e in cui in questo momento sto scrivendo queste righe.
Pensavo più o meno queste cose mentre, qualche giorno fa, assistevo a un incontro pubblico che aveva come tema il futuro del porto di Molfetta. Tutto ciò che veniva detto appariva razionale e condivisibile: il Corridoio 8, la Cina, la nuova centralità del Mediterraneo, l’ampliamento del canale di Suez; e ancora la necessità di cogliere le opportunità, di creare sviluppo, di far crescere il pil, di creare occupazione…
Durante l’incontro gli operatori economici rappresentavano assai bene le logiche in cui si devono muovere: i mercati, i prezzi, le infrastrutture. I politici poi hanno fatto il possibile per mostrarsi capaci di fare il loro mestiere, di spendere cioè i soldi pubblici nel migliore dei modi possibili.
Ma che cosa sarebbe successo se qualcuno si fosse alzato e avesse detto che tutto quanto si vuole fare rischia di restare sommerso dalle acque nel giro di qualche decennio e che appena lo consentirà lo scioglimento dei ghiacci del Polo Nord le grandi navi diserteranno Suez preferendo il più economico e veloce passaggio a Nord-Ovest?
Anche senza suscitare risate di scherno e d’incredulità, un intervento del genere che risposta avrebbe potuto sperare dai politici e dagli operatori economici presenti se non, nel migliore dei casi, un: «capisco, condivido ma io non posso fare che il mio lavoro»?
Esiste uno iato, una irriducibile separatezza che divide gli argomenti di Al Gore da ciò che possiamo fare per migliorare le nostre condizioni di vita qui e in questo momento. Se abbiamo caldo che altro possiamo fare se non accendere il condizionatore?
Anche se volessimo caricarci sulle spalle il fardello del mondo, forse che non dobbiamo pensare prima alla nostra quotidianità, al mutuo da pagare, agli studi dei figli, al fine mese?
Forse possiamo illuderci di fare qualcosa per il pianeta riducendo personalmente l’uso della macchina, ma se le automobili le vendiamo possiamo solo sperare di venderne di più. Possiamo temere la scomparsa delle grandi foreste pluviali, ma se vendiamo parquet vorremmo venderne sempre di più di listoni di iroko, doussié o padouk.
Anche quando cerchiamo di adottare uno stile di vita rispettoso dell’ambiente così come ormai quotidianamente suggeriscono televisione e giornali, non possiamo fare a meno di desiderare che l’economia continui a crescere. E questo ci spinge inesorabilmente 6 metri sotto il mare.

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