venerdì 15 febbraio 2008

"Terra dell'uomo"

(dove si parla dei giardinetti sotto casa)


Appena dopo l’ingresso il moncone di viale fa uno scarto e punta più decisamente verso ovest, diritto oltre l’area dei giochi, a cercare un centro, posticcio rispetto a quello che era l’assetto originario della piazza, dove, circondato da panchine dallo schienale curvo accostate in numero sufficiente a chiudere la circonferenza, è stato piantato un fusto sottile che fra molti anni sarà forse un albero capace di dare ombra a chi vorrà, su quelle panchine, sedersi.
Più in là, una rientranza nella recinzione ospita poderosi manufatti in pietra e cemento, acciaio e legno che dovrebbero servire a nascondere i cassonetti dell’immondizia, ma che finiscono invece per sottolinearne chiassosamente la presenza a ricordare, neanche si trattasse di un monumento alla modernità consumistica, che tutto quello che compriamo, presto o tardi, lì dovrà andrà a finire.
Non è particolarmente brutto o bello questo nuovo giardinetto che viene a prendere il posto di un altro giardinetto, anch’esso né brutto né bello, che però ai miei occhi aveva almeno il pregio di essere lì da quando ne avevo memoria: questo nuovo, con le solite panchine comperate a catalogo, con i soliti lampioni in numero inspiegabilmente eccessivo, con il solito prato all’inglese sul poco terreno sopravvissuto a mattonelle e cemento, con i giochi per bambini in legno multicolore come ormai si vedono uguali da Canicattì a Brescia, è proprio quello che ci si aspetta di trovare sotto casa una volta superati i segnali che proibiscono di giocare a palla e di introdurre cani e biciclette e di fare tutto quello ci si immagina di voler fare in uno spazio verde. È, insomma, il giardinetto di quartiere che ci hanno educato ad immaginare regalandoci da bambini i pupazzetti playmobil: che le cose debbano andare in un certo modo, è bene impararlo da piccoli.

“Giardino” deriva da una parola di origine germanica che, come la corrispondente parola greca paràdeisos che discende a sua volta da una parola persiana, indicava un luogo recintato, anzi “il” luogo recintato per eccellenza, spazio in cui come in un incubatoio, o in un vaso, o nel grembo materno, ciò che è propriamente umano nasce e viene protetto insieme a ciò che della natura è all’uomo benevolo e dunque coltivato.
“Giardino” è, dunque, la “terra dell’uomo” in opposizione a quanto appare ostile e incomprensibile.
Più tardi il luogo cintato, chiuso, l’area da cui si voleva escludere tutta quella parte del mondo fenomenico che potesse indurre sgradevolezza o inquietudine nei suoi frequentatori, diventa il luogo delle delizie per pochi e interdetto ai più, per poi cominciare, dalla fine del XVIII secolo, a essere aperto a tutti: il “giardino pubblico”, un vero e proprio ossimoro, deve la sua esistenza all’Illuminismo e alla Rivoluzione che elessero a bene comune ciò che prima era riservato a clero e nobiltà.
Il giardino subirà in quegli anni il medesimo processo di mondanizzazione a cui andrà soggetta l’arte che allora, e in maniera definitiva, separerà il suo campo da quello delle celebrazioni religiose. Da allora in avanti si avrà “arte” come luogo della sperimentazione e “arte sacra” come luogo di una rappresentazione canonica progressivamente scivolante nel kitsch, mentre il giardino da “macchina emozionante”, luogo d’incanto e d’incontro con l’ineffabile, diventerà un razionale luogo deputato alla ricreazione salutistica dei corpi.
Oggi usiamo la stessa parola per indicare gli spazi alberati in prossimità delle stazioni e quelli che Semiramide percorreva sulle terrazze di Babilonia e non abbiamo particolari difficoltà a chiamare “giardino” aree aperte, a volte pericolose e da evitare frequentate come sono da prostitute e spacciatori.
Questa omonimia è la cicatrice di uno smottamento dell’anima: oggi non è più la natura ad apparirci oscura e pericolosa ma sentiamo, semmai, che è piuttosto la natura ad avere bisogno di essere difesa dalle oscure pulsioni dell’uomo (il parco, in questo senso, è esattamente il contrario del giardino). Tutto il mondo è ormai “terra dell’uomo” e le recinzioni non servono per tenere lontane minacce “esterne” quanto per evitare quelle “interne” che vengono da vandali e teppisti: le cure difensive sono le stesse che bisogna prodigare per preservare una qualunque proprietà pubblica. Il giardino è dunque ridotto ad arredo urbano, spazio cioè in cui viene celebrata l’eguaglianza fra una panchina e una siepe, un lampione e un arbusto, un prato e un marciapiede.
E così mentre tutt’intorno i primi botti di Capodanno incombono minacciando di far saltare, a breve, cassonetti della spazzatura e fontanelle pubbliche, sto qui, a piazza Giovene, che mi riguardo un po’ stupito questo spazio nuovo che sta a quello vecchio come una cucina componibile sta alla sala da pranzo di mia nonna con i mobili che tentavano di innestare nella tradizione dell’artigianato locale qualche accenno liberty imparato sfogliando cataloghi parigini e dove ci affollavamo in tanti, ma proprio tanti, che sembrava proprio di stare a “casa”.

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