venerdì 8 febbraio 2008

La plastica e l’eternità

L’isola dei desideri consumati





La più estesa discarica del mondo, raccontava martedì 5 febbraio l’Indipendent, è stata scoperta dall’oceanografo americano Charles Moore ed è costituita da due isole galleggianti fra di loro collegate, vaste entrambe come gli Stati Uniti e spesse fino a una decina di metri, che le correnti del Pacifico settentrionale confinano in un tratto di mare compreso fra le Hawaii e il Giappone: una trappola mortale per ogni forma di vita che ha la sventura di imbattersi in quello sconfinato e semiliquido ondeggiare di immondizia a pelo d’acqua.
Questa “zuppa traslucida”, a detta dell’oceanografo, di rifiuti ne accoglierebbe circa 100 milioni di tonnellate. Non è che sia poi tanta: si tratta di una quantità decisamente inferiore a quella che nel solo 2007, fra rifiuti urbani e industriali, abbiamo prodotto in Italia (a proposito, non è strano che per i rifiuti si parli di “produzione” senza alcun imbarazzo o ironia?), una vera inezia a confronto del miliardo e 300 milioni di tonnellate di spazzatura prodotte nell’Unione Europea nello stesso periodo; ma corrisponde a tutta la plastica che, al ritmo di quella che noi italiani lo scorso anno abbiamo gettato via, metteremmo insieme in un trentennio.
È di plastica, infatti, che la Great Pacific Garbage Patch è nella più gran parte formata, in tutte le immaginifiche forme in cui il nostro fervore produttivistico riesce a declinarla: palloni da calcio e mattoncini Lego, kayak e shopper, siringhe, accendini e Barbie Laperonzola, secchi e spazzolini da denti, sedie, piatti, posate e soldatini, grembiuli, stivali, materassini e bambole gonfiabili. Tutta la plastica finita in mare da quando è stata inventata, cinquant’anni fa, è ancora lì, da qualche parte che galleggia perché, fra tutto ciò che l’umanità è riuscita a concepire nella sua lunga carriera di apprendista stregone, la plastica è la cosa più vicina all’immortalità.
E di ogni materia o oggetto immortale di cui raccontano i miti degli uomini, la plastica condivide il destino: è priva di anima perché le anime, si sa, hanno un loro tempo e non possono restare per sempre su questa terra: le forme si consumano e degradano, la plastica non ha una forma sua, né discende da cosa che abbia forma. È materia allo stato puro e docile; al tatto può restituire sensazione di pelle, di metallo o di vetro, può essere rigida o flessibile, può rimbalzare o assorbire gli urti, è plasmabile a piacere in qualunque simulacro capace di esaudire ogni nostro desiderio, come una bambola gonfiabile, appunto.
Nel nostro immaginario la plastica ha avuto alti è bassi: è apparsa come icona della modernità negli anni ’60 quando, come sfolgorante e tangibile rivelazione di un futuro leggero, igienico, duraturo e alla portata di tutti, giunse a spazzare finalmente via dalla vita di tutti i giorni le arcaiche suppellettili di legno tarlato, di metalli corrosi e di cocci venati. Alla crisi di rigetto, e un po’ anche di disgusto, degli anni ’70 provocata dal suo troppo rapido e indiscriminato diffondersi, seguì, negli anni ’80, la sua tenace sopravvivenza di materiale ormai indispensabile. Infine la nuova vita degli anni ’90, quando sapienti campagne di marketing la posizionarono nel nostro immaginario come il materiale riciclabile per eccellenza, capace perfino, alla fine della sua vita, di restituire nei termovalorizzatori l’energia usata per produrla e forgiarla: il materiale perfetto, capace di vivere molte vite prima di finire la sua esistenza in un falò rituale e purificatore, da cui, come nei grandi fuochi rituali di primavera, possa ancora nascere e trarre alimento la vita nuova.
Adesso questa isola di plastica abbandonata che “vaga come un animale privo di guinzaglio” senza nessuno che si prenda più cura di lei e che le restituisca la forma e l’anima che il passare della moda e l’uso effimero ha bruciato in un momento, questa massa sconfinata che non può degradarsi e finire, semplicemente svanire, senza l’intervento del suo creatore che gli ha imposto questa innaturale immortalità, questa materia estranea alla vita che sa scimmiottare ma non replicare, si vendica affacciandosi sempre più spesso su quel paesaggio degli uomini che tanto ha contribuito a creare e a manutenere, ributtando ciò di cui è fatta sui declinanti paradisi hawaiani e mostrandosi agli aerei, ai satelliti, agli sgomenti passeggeri delle navi di passaggio nella forma di un blob sconfinato, vomitato a perturbare le coscienze.

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