giovedì 31 luglio 2008

Coltivare la carne

In vitro meat

La notizia risale allo scorso aprile: il PETA (People for the Ethical Treatment of Animals), una fra le più note organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti animali: è quella che spoglia attrici e modelle contro le pellicce, ha messo in palio un premio da un milione di dollari che andrà a chi riuscirà per primo, entro il 12 giugno 2012, a produrre in laboratorio tessuti animali di gusto e consistenza non distinguibili dalla carne di pollo e che possano essere messi sul mercato a un prezzo competitivo.
Anche se filetti e costate non sono indispensabili alla nutrizione umana, e anche se è in vendita una certa quantità di imitazioni vegetariane più o meno riuscite della carne, c’è un considerevole numero di persone che, pur non essendo del tutto insensibili alle sofferenze degli animali, non sanno rinunciare a bistecche, scaloppine e ossibuchi. Così il PETA ha scelto, pragmaticamente, di andare incontro a questa umanità carnivora senza più pretendere di redimerla, nella convinzione che consentire agli impenitenti divoratori di braciole, salsicce e paillard di continuare a soddisfare i loro carnali desideri, evitando al contempo la quotidiana ecatombe di bovini, suini, polli, tacchini, pecore, agnelli e quaglie, senza trascurare pesci, molluschi e crostacei che quotidianamente finiscono sulle nostre tavole, non sia una strategia “uncomfortable”, scomoda, come si è espressa Ingrid Newkirk, la co-fondatrice e presidente dell’organizzazione.
Nonostante l’ottimismo della Newkirk la pensata ha suscitato da parte di molti animalisti forti perplessità: all’interno della stessa PETA, vien riferito, sarebbe scoppiata qualcosa di simile a una “guerra civile”.
Infatti da molti puristi dei diritti animali l’iniziativa viene vista come una resa morale, perché riduce o elimina le giustificazioni etiche (la sofferenza arrecata a esseri viventi) e ambientali (la smisurata impronta ecologica degli allevamenti) a favore del vegetarismo, rendendo il mangiare carne una decisione accettabile.
Le tecnologie attuali consentono di produrre al più un sottile strato di cellule, un “foglio” da cui si può a fatica, e a costi elevatissimi, ottenere una poltiglia adatta, forse, a fare salsicce e hamburger. Ma fra non molto sarà possibile irrorare il tessuto in coltura con vasi sanguigni di modo che anche le cellule che non vengono a contatto con il liquido nutriente potranno essere alimentate a dovere, permettendo così alla carne di aumentare adeguatamente di spessore. E si potrà anche far sì che nella carne ci sia un po’ di grasso e ossi per ottenere alfine una vera bistecca. Volendo persino una fiorentina: basterà partire da staminali di chianina.
A quel punto il processo andrà industrializzato per renderlo economicamente conveniente, forse l’aspetto più difficile della vicenda: attualmente il costo della carne coltivata si aggirerebbe intorno ai 4 milioni di dollari al kg., a fronte di un costo, nei paesi industrializzati, estremamente basso, come mai lo è stato nella storia dell’umanità, grazie a selezioni geniche, all’irrisorio costo dell’energia e dei trasporti, agli integratori alimentari e alla “razionalizzazione” degli impianti: le sofferenze degli animali infatti non generano costi, purché quelli non muoiano prima della macellazione.
Riuscite a immaginare chilometrici petti di pollo che su nastri trasportatori avanzano verso il taglio e l’impacchettamento? Sarebbero sanissimi, “perché i sostituti della carne saranno prodotti in condizioni controllate impossibili da mantenere nelle fattorie tradizionali e per questo saranno più sicuri, più nutrienti, meno inquinanti, e più umani rispetto alla carne convenzionale” come si legge sul sito della New Harvest (http://www.new-harvest.org), una società fondata nel 2004 con lo scopo di “sostenere lo sviluppo dei sostituti della carne, con l’obiettivo a lungo temine di creare alternative economicamente competitive alla produzione convenzionale di carne”.
Filetti, quelli futuri, certo molto più sani di quelli ricavati dai polli stipati all’inverosimile in batteria, obesi e pieni di ulcere provocate dagli escrementi sui quali sono costretti a stare seduti per settimane, imbottiti di antibiotici e tenuti svegli a beccare tutto ciò che ha un colore paglierino per tutti i 35 giorni della loro breve e allucinata esistenza. Per fortuna non c’è molto in quelle pallide e insapori fette adagiate su una vaschetta di polistirolo e avvolte nel domopack, con su una bella tranquillizzante etichetta a riportare peso e prezzo e data di scadenza e provenienza, a ricordarci che una volta erano parte di un essere vivente.
E allora perché non pensare a produrre organi, arti, quarti pronti per una macellazione senza vittime? Ossi e lacerti saranno spezzati e affettati senza impartire sofferenza. E come potremo provare sensi di colpa mangiando carne mai nata e che quindi mai morirà anche quando sarà ingerita e digerita?
Potremo anche coltivare pelle da concia, così, senza più sensi di colpa potremmo evitare di rinunciare a cinture, scarpe, giacche e portafogli. Potremo ottenere lunghi tappeti di epidermide di ermellino o visone o volpe argentata e sdoganare le pellicce. E che ne dite di suini fatti di sole cosce? Potremmo persino pensare di mettere a coltura cellule staminali prelevate da noi stessi. Sarebbe cannibalismo? E se immaginassimo di produrre interi animali privi di cervello, in modo da usare quel che più ci serve?
In queste fantasie l’assenza del cervello sembra il limite eticamente insuperabile: bisognerà proprio rinunciare alla capuzze con le patate.
Chissà, forse il destino dell’uomo in quanto specie è proprio quello di dare materialità ai propri incubi.

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