giovedì 6 marzo 2008

Paesaggio con cisterna

La strage del 3 marzo



Il Truck Center, poco più di un grosso autolavaggio, si trova nell’Area di Sviluppo Industriale di Molfetta, 400 ettari che dieci anni fa erano un mare di ulivi: centomila ne hanno abbattuti, sradicati e spediti al Nord per decorare i giardini della Brianza e i parcheggi dei centri commerciali del Triveneto, o fatti a pezzi per ricavarne parquet o semplicemente legna da ardere. Muretti a secco, lame, torri e masserie, non è stato risparmiato nulla: il cenobio di San Martino, che risale al XIII secolo, è diventato uno spazio d'esposizione per rubinetti e tazze da bidet. Mentre procedeva l’urbanizzazione, nelle strade appena tracciate venivano regolarmente accumulati rifiuti speciali e inerti che arrivavano da ogni dove, richiamati dalla sospensione delle regole in un’area che non era già più sotto la responsabilità comunale senza che fosse ancora pienamente passata sotto le competenza di altro ente, per poi sparire sotto il peso delle macchine schiacciapietre.
Qualche giorno dopo, quando l’asfalto si era appena raffreddato, su quelle strade ancora deserte e circondate dal nulla arrivavano i fantini a guidare cavalli, momentaneamente distratti alla macellazione, in corse clandestine.
Alla fine gli insediamenti industriali sono arrivati: una settantina, molti dei quali a seguito di rilocazioni pagate con la 488, e soprattutto il Fashion District, la “Città della moda”, con i secondi piani degli edifici finti, con il cinema multisala e con le piazzette in polistirolo, nuovo luogo di struscio per le nuove generazioni che disertano ormai quello che da cuore della città si avvia a diventare una melanconica periferia senza centro. Domenica scorsa, due giorni prima della tragedia, alla presenza del vescovo che benedicendo auspicava anche lì, per ricordare la comune matrice cristiana, la creazione di un piccolo luogo di preghiera, del sindaco-senatore (centro-destra) e dell’assessore regionale (centro-sinistra), è stata inaugurata anche la Mongolfiera, centro commerciale con la “saracinesca più grande d’Europa” e una galleria di 110 negozi. Oggi, con un laconico comunicato, i Carabinieri hanno fatto sapere che in un capannone non troppo lontano sono state ritrovate, insieme a cinque Porsche rubate da un autosalone di una città vicina, migliaia di ogive e inneschi per confezionare munizioni.

Qualche giorno fa Bertinotti ha detto che «Non si può stare al tempo stesso con i lavoratori e con gli imprenditori». Ha segnato il territorio, l’ex presidente della Camera: da una parte chi vede che le disuguaglianze sono catene pesanti, dall’altra chi racconta di ascensori sociali da rimettere in moto e capaci di far apparire possibile per tutti una vita migliore. Da una parte chi del sogno salvifico della società senza classi si sente derubato da chi, dall’altra parte, racconta che la storia è già finita in una melassa interclassista affollata da immaginari padroni di se stessi. Bertinotti, ha dichiarato guerra all’illusione di una società che fluida è solo nel suo apparire, solo perché capace di nascondere i fatti sotto una coltre di narrazioni frammentate, solo perché capace di confondere e sparigliare i nomi delle cose in modo da far scambiare la mutevolezza e provvisorietà delle differenze con la loro scomparsa.
Ma qui, a Molfetta da dove scrivo, i cinque morti del 3 marzo raccontano di una società in cui è sempre più difficile rintracciare con nettezza il confine fra lo sfruttato e lo sfruttatore, dove è sempre più difficile distinguere il libero professionista o il padroncino dal precario, il terzista dal cottimista, l’incertezza subita dalla flessibilità goduta. Raccontano, quei corpi ammucchiati nella cisterna, di una realtà in cui è sempre più arduo porre un individuo, nella sua totalità sempre più imprecisa, multiforme e frammentata, di qui o di là dalla linea che divide gli oppressi dagli oppressori. Qui non è stato come alla Thyssen-Krupps dove da una parte li vedevi bene i padroni in giacca e cravatta e dall’altra gli operai in tuta nell’inferno dei laminatoi; qui i solchi, i confini passano attraverso le anime e i corpi di persone che, come tutti noi, di volta in volta si trovano a essere vittime e carnefici: qui le responsabilità non sono rintracciabili in ruoli precisi e in incurie certe.
È, piuttosto, tutto il sistema di produzione che esternalizzando le mansioni per tagliare i costi, frantuma le responsabilità in un pulviscolo inconsistente: è tutto il sistema delle normative che finisce troppo spesso per gravare su chi non può sostenerlo perché è anche lui un anello debole e ricattabile, stretto fra chi impone il prezzo del lavoro e la banca che non fa credito.

Erano lavagisti esperti, è stato detto, non era certo la prima volta che lavavano cisterne che avevano trasportato sostanze potenzialmente pericolose. Forse però facevano un lavoro di cui avevano sottovalutato il rischio, si sono ritrovati ad essere un ingranaggio probabilmente inconsapevole di una macchina che tende a far sparire i costi di riciclaggio e messa in sicurezza disperdendo il pericolo, riversandolo dove capita. Che fine avrebbe fatto quel veleno se le circostanze non avessero preso una svolta così tragica? Che fine hanno fatto i contenuti delle altre cisterne? Vorrei essere rassicurato, vorrei che qualcuno mi dicesse che non sono finiti, scorrendo nelle falde, in quel mare distante poche centinaia di metri dove d’estate vado a fare il bagno.

Per l’estate prossima, accanto all’Outlet, è prevista l’inaugurazione di “Terra dei Giganti” parco divertimenti a tema.

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