I primi giorni del marzo 1971 iniziavano i lavori di demolizione di Palazzo Cappelluti
È sempre la solita vecchia storia.
Un vecchio palazzo, un quartiere malsano, una fabbrica dimessa, e qualcuno che li vuole tirare giù per costruire qualcosa di nuovo. Les Halles, i Navigli, lo stadio di Wembley, il Borgo Novo, le ville liberty di Palermo: una storia che si ripete sempre uguale e dappertutto, a Roma come a Milano, a Parigi come a Londra, a Palermo come a Molfetta nel suo piccolo, con il suo Palazzo Cappelluti, col biscottificio Pansini & Gallo, con l’orchestra della Villa Comunale buttati giù, con il Cenobio di San Martino che affoga fra i capannoni industriali, e poi le ciminiere Gallo e i piccoli edifici con le colombaie sulle facciate che tutt’intorno ospitavano le officine, lo stabilimento Maldarelli, e così a continuare.
Ruderi malsani per qualcuno, preziose memorie per altri. Cemento contro muretti a secco, anticorodal contro chianche, asfalto contro pavimenti De Lillo.
No, non sono sempre i cavalieri del nuovo, gli alfieri di questa sbandierata, presunta e pelosa modernità, quelli che scavano crateri nella storia, che l’hanno vinta. Ma le loro sono vittorie definitive. Quando a vincere sono invece gli altri, quelli che vogliono conservare la memoria dei luoghi, resta comunque palpabile un senso irriducibile di sospesa precarietà: per oggi è andata, ma domani?
E quando invece arriva, definitiva, la sconfitta, in quegli spazi vuoti, in quello sbigottimento spaziale, in quell’assenza di volumi già preceduta dal sonno della memoria contro la quale non si riesce mai a fare abbastanza, e che precede una nuova semantica urbana che tutto definitivamente cancellerà, si può al massimo inscenare un’ultima protesta come quella di Marco Ferreri che camuffò gli sfrattati dalle ruspe, i rifiuti umani, in pellerossa fra gli sbancamenti di terra degli antichi mercati all’ingrosso della capitale francese.
È una guerra asimmetrica quella che viene combattuta fra chi nel presente vede il futuro da costruire e quelli che nel presente vedono sgretolare il passato.
Se facessimo un sondaggio fra i molfettesi chiedendo loro quanti ritengono che sia stato giusto buttare giù palazzo Cappelluti, sono sicuro che pochi, non foss’altro per pudore, avrebbero il coraggio di dire di sì. È allora perché ne restano solo foto sbiadite?
I molfettesi di fronte alle vecchie foto sanno struggersi e rimpiangere la città che non c’è più, e non v’è dubbio che siano in questo sinceri. Ma allora perché non sono riusciti ad impedire quelle demolizioni?
Se si vanno a rispolverare i giornali dell’epoca, ci si sorprende nel constatare quanto inadeguata, flebile se non totalmente inesistente sia stata l’opposizione a quelli che oggi, tardivamente, chiamiamo scempi.
Gli argomenti a favore della conservazione sempre declinati troppo blandamente per fare presa.
Al contrario chi voleva fare posto al nuovo o taceva e faceva parlare i fatti o, se parlava, appariva come un determinato, irridente annunciatore della storia che si rimette in moto.
Dopo qualche anno, quando la città uscì dal torpore e la novità si dimostrò assai meno bella dell’annunciato, i lamenti per la perdita cominciarono a diventare senso comune.
E nelle scuole elementari si insegnò come era bella la città che non c’era più. Gli adulti ascoltavano, annuivano, provavano a scusarsi: eravamo giovani, non sapevamo, non capivamo...
Poi la storia si ripete, i ragazzetti a cui avevano spiegato che buttare giù palazzo Cappelluti era stata una stupidaggine oscena, oggi sono ormai signori imbolsiti, magari calvi e con le palpebre cascanti che di fronte alla demolizione della palazzina uffici dei Cantieri Tattoli hanno applaudito felici immaginando nuovi parcheggi con vista sul tramonto e ora sognano. Sognano grattacieli svettanti verso il cielo lì dove c’erano le lame, capannoni dove c’erano tendoni e uliveti, asfalto e cemento dove c’erano edicole votive e muretti a secco. Sognano, forse, anche pecore elettriche.
Un vecchio palazzo, un quartiere malsano, una fabbrica dimessa, e qualcuno che li vuole tirare giù per costruire qualcosa di nuovo. Les Halles, i Navigli, lo stadio di Wembley, il Borgo Novo, le ville liberty di Palermo: una storia che si ripete sempre uguale e dappertutto, a Roma come a Milano, a Parigi come a Londra, a Palermo come a Molfetta nel suo piccolo, con il suo Palazzo Cappelluti, col biscottificio Pansini & Gallo, con l’orchestra della Villa Comunale buttati giù, con il Cenobio di San Martino che affoga fra i capannoni industriali, e poi le ciminiere Gallo e i piccoli edifici con le colombaie sulle facciate che tutt’intorno ospitavano le officine, lo stabilimento Maldarelli, e così a continuare.
Ruderi malsani per qualcuno, preziose memorie per altri. Cemento contro muretti a secco, anticorodal contro chianche, asfalto contro pavimenti De Lillo.
No, non sono sempre i cavalieri del nuovo, gli alfieri di questa sbandierata, presunta e pelosa modernità, quelli che scavano crateri nella storia, che l’hanno vinta. Ma le loro sono vittorie definitive. Quando a vincere sono invece gli altri, quelli che vogliono conservare la memoria dei luoghi, resta comunque palpabile un senso irriducibile di sospesa precarietà: per oggi è andata, ma domani?
E quando invece arriva, definitiva, la sconfitta, in quegli spazi vuoti, in quello sbigottimento spaziale, in quell’assenza di volumi già preceduta dal sonno della memoria contro la quale non si riesce mai a fare abbastanza, e che precede una nuova semantica urbana che tutto definitivamente cancellerà, si può al massimo inscenare un’ultima protesta come quella di Marco Ferreri che camuffò gli sfrattati dalle ruspe, i rifiuti umani, in pellerossa fra gli sbancamenti di terra degli antichi mercati all’ingrosso della capitale francese.
È una guerra asimmetrica quella che viene combattuta fra chi nel presente vede il futuro da costruire e quelli che nel presente vedono sgretolare il passato.
Se facessimo un sondaggio fra i molfettesi chiedendo loro quanti ritengono che sia stato giusto buttare giù palazzo Cappelluti, sono sicuro che pochi, non foss’altro per pudore, avrebbero il coraggio di dire di sì. È allora perché ne restano solo foto sbiadite?
I molfettesi di fronte alle vecchie foto sanno struggersi e rimpiangere la città che non c’è più, e non v’è dubbio che siano in questo sinceri. Ma allora perché non sono riusciti ad impedire quelle demolizioni?
Se si vanno a rispolverare i giornali dell’epoca, ci si sorprende nel constatare quanto inadeguata, flebile se non totalmente inesistente sia stata l’opposizione a quelli che oggi, tardivamente, chiamiamo scempi.
Gli argomenti a favore della conservazione sempre declinati troppo blandamente per fare presa.
Al contrario chi voleva fare posto al nuovo o taceva e faceva parlare i fatti o, se parlava, appariva come un determinato, irridente annunciatore della storia che si rimette in moto.
Dopo qualche anno, quando la città uscì dal torpore e la novità si dimostrò assai meno bella dell’annunciato, i lamenti per la perdita cominciarono a diventare senso comune.
E nelle scuole elementari si insegnò come era bella la città che non c’era più. Gli adulti ascoltavano, annuivano, provavano a scusarsi: eravamo giovani, non sapevamo, non capivamo...
Poi la storia si ripete, i ragazzetti a cui avevano spiegato che buttare giù palazzo Cappelluti era stata una stupidaggine oscena, oggi sono ormai signori imbolsiti, magari calvi e con le palpebre cascanti che di fronte alla demolizione della palazzina uffici dei Cantieri Tattoli hanno applaudito felici immaginando nuovi parcheggi con vista sul tramonto e ora sognano. Sognano grattacieli svettanti verso il cielo lì dove c’erano le lame, capannoni dove c’erano tendoni e uliveti, asfalto e cemento dove c’erano edicole votive e muretti a secco. Sognano, forse, anche pecore elettriche.
(La foto in testa al post è quella di copertina di "Palazzo Cappelluti. Una vicenda oscura" di Nicola Morgese, ed. Edirespa)
2 commenti:
Ho letto il tuo articolo e sono decisamente indignata. Si trattava di due costruzioni che non andavano assolutamente buttate giù, ma per quanto riguarda i cantieri Tattoli non credo che molti fossero a conoscenza di quello che stava per accadere. Chi ci governa gioca molto su questa ignoranza. A parte questo, per delle ricerche universitarie credo di interessarmi sia a Palazzo Cappelluti che ai cantieri navali Tattoli. su questi ultimi hai qualche informazione?
Grazie.
Purtroppo, se quello che ti serve sono notizie storiche, non ho molto. Però posso dirti che fra le prescrizioni della VIA con cui fu approvato il piano regolatore del porto c'era, insieme ad altre anch'esse disattese o in attesa di esserlo, anche quella di non abbattere la palazzina servizi e di trasformarla in museo del mare.
Mi trovi su FB se ti dovesse servire contattarmi.
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