domenica 17 dicembre 2006

“… Sul gran teatro della vita…”

A che ci servono l’appendice e il coccige? Nella sua infinita preveggenza il buon Dio ha creato i peli superflui per dare lavoro alle estetiste? E perché mai ha voluto fornirci di muscoli per muovere le orecchie, ma non ci ha dato la capacità di usarli?
La teoria dell’evoluzione spiega questa e altre inutilità – come le ali delle galline o le zampe posteriori dei pitoni – sostenendo che si tratta di quel che resta d’organi una volta pienamente formati e funzionali: “strutture vestigiali” le chiamano i biologi.
Milioni d’anni fa il poter dirigere le orecchie per cercare le origini di un suono ci doveva fare piuttosto comodo, visto che allora eravamo animali prevalentemente notturni. Quando poi ci siamo impadroniti del giorno e abbiamo fatto della vista il nostro organo principale, non abbiamo più avuto bisogno di muovere le orecchie. I muscoli però sono rimasti là, a ricordarci quel che eravamo.
L’evoluzione, l’ha ben spiegato François Jacob, lungi dall’essere un percorso ascensionale verso la perfezione, assomiglia piuttosto all’operare di un bricoleur che si arrangia assemblando alla meno peggio quello che gli capita sottomano.
Così una pinna diventa una zampa, per poi trasformarsi in un’ala e poi, magari, nuovamente una pinna. A volte, però, alcuni organi invece di evolvere in altri egualmente funzionali restano lì inutili, a volte dimenticati, a volte persino ingombranti e fastidiosi.

Come la vita, anche il paesaggio è il risultato di innumerevoli interventi, scelte e ripensamenti. Quello che gli storici dell’arte chiamano “passaggio di stili” è spesso il risultato del conflitto fra parti sociali. E le piccole lotte fra vicini di casa come gli scontri cruenti fra grandi eserciti non hanno mancato di lasciare sul corpo delle città cicatrici più o meno rimarginate. Palazzi moderni sorgono inopportuni su piazze d’impianto ottocentesco. Palazzine spuntano ad interrompere il reticolo viario. Cemento ricopre la pietra. Pezzi di città da aree residenziali diventano centri d’affari. Quartieri interi sono abbandonati. Torrioni sono trasformati in spazi museali. Modeste abitazioni a piano terra nei centri storici finiscono riconvertite in lussuose boutique.

Ma ci sono anche elementi urbanistici o architettonici che il mutare dei modi dell’abitare ha trasformato o sta trasformando in qualcos’altro.
Questo fenomeno è un po’ occultato dall’abitudine a continuare a chiamare con lo stesso nome oggetti che ormai svolgono un’altra funzione rispetto a quella originale. I semiologi chiamano questo fenomeno “deriva del senso”: è quel che succede quando continuiamo a chiamare “penne” oggetti che con gli uccelli non hanno più nulla a che fare.
Sarebbe facile fare dell’ironia ascrivendo a questo fenomeno l’ostinazione che noi molfettesi mettiamo nel continuare a chiamare “marciapiedi” oggetti ai quali sembra che solo saltuariamente attribuiamo la funzione che dà loro il nome, deserti come sono nelle periferie dove vengono utilizzati solo da perdigiorno, matti, rom e fotografi, o occupati, in centro, da sedie e tavolini, bancarelle, totem pubblicitari, cassonetti, fioriere, dissuasori (per i pedoni), automobili, dissuasori (per le automobili), intere verande, “feci canine”, rifiuti vari e tutto quanto possa essere necessario per convincere i pedoni che non sono certo i marciapiedi i luoghi deputati al “marciare a piedi”.
Ma l’elemento architettonico che forse più di altri si può considerare emblematico del mutamento dei modi del vivere nelle nostre città, è un altro.
Forse è dalla parola arabo-persiana Bâla–chaneh, forse dall’antico alto tedesco balk che viene il nostro “balcone”, parola con cui si intende un luogo elevato o sporgente dalla casa, da cui si può guardare. Il balcone è un’invenzione del barocco, quando le strade e le piazze delle città si trasformarono in luoghi di rappresentazione e, come da un palco teatrale, dal balcone ci si affacciava sul gran teatro della vita.
Oggi i balconi, spodestati da più tecnologiche e potenti finestre sul mondo, svolgono assai raramente la loro funzione originaria. Più spesso sopravvivono trasformati in ripostigli all’aperto, o in simulacri di giardino che tentano di fare da schermo fra le abitazioni e il traffico.
Il balcone è anche un genere fotografico che rientra in quello più ampio della foto turistica: in questo caso il balcone deve comparire completamente deserto a testimoniare l’estinzione della sua funzione.
Nel Fashion District, che due anni fa è spuntato nella nostra campagna, i balconi sono rigorosamente inaccessibili, come i finti secondi piani di tutte le costruzioni, portando così a compimento la sua trasformazione da luogo da cui affacciarsi ad elemento decorativo.
Ma allora perché si continua a costruire balconi? Rifiutando la cinica risposta che questo avviene perché, pur non esprimendo volumetria, il costruttore se lo fa pagare, la verità è che, in fondo al cuore, ciascuno di noi sa che ogni casa ha bisogno di un bel paesaggio oltre la finestra. Un balcone ce ne dà l’illusione.

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