Scegliete a piacere due attributi e sistemate ciascuno di
essi su un asse orientato e graduato. Verrà così definito uno spazio cartesiano
– diviso nei quattro quadranti che conoscete dalla scuola dell’obbligo – nel
quale potrete posizionare qualunque oggetto (brand, canzone, sentimento, smartphone,
o quel che vi pare) sulla base del punteggio che per ciascuna proprietà gli attribuirete.
Naturalmente in questo spazio potrete, volendo, posizionare anche voi stessi.
Usando per esempio gli attributi “elegante” e “alla moda” e assegnando
un punteggio che vada da molto elegante (1) a assolutamente trasandato (-1) e
da decisamente trendy (1) a assai demodé (-1), vi scoprirete in grado di maneggiare
una geografia dell’immaginario capace di dar conto di ogni sfumatura fra l’elegante
e lo sciatto, il modaiolo e il d’antan.
Aggiungete un terzo asse – definito per esempio dagli
opposti “pratico” e “scomodo” – e potrete nuotare in uno spazio tridimensionale
nel quale viene compreso ciò che non è affatto alla moda e nemmeno elegante ma
assai comodo, oppure non definibile come “comodo” o “a la page” ma comunque elegante, come può esserlo una mossa del
gioco degli scacchi.
A questo punto, se riusciste a immaginare un universo a n dimensioni, vi ritroverete a
maneggiare una istantanea
in cui sono visibili le prossimità fra idee e prodotti, le
affinità fra gusti e marche, le ragioni e le possibilità di operazioni di co-marketing,
le alleanza potenziali fra brand e le sponsorizzazioni che non avverranno mai. Scorgerete
i confini delle identità di marca e gli spazi vitali delle idee di prodotto, i
territori ancora vergini, quelli occupati e quelli contesi. insomma
quell’universo fatto di loghi, brand, offerte e sponsorizzazioni, claim e spot in cui nuotano i
pubblicitari.
Se poteste scattare nel tempo molte istantanee scoprireste
un universo agitato, ribollente, in cui idee si aggrappano ad altre per formare
isole di effimera stabilità, fino a quando non interverranno nuove e potenti correnti
a strapparle via per affondarle o per aggrumarle a formare impaludamenti o
nuove isole o continenti. Ecco nodi di
cravatta o spacchi di gonna, norme o sentimenti, linee di carrozzeria e modi di
dire che restano in superficie per pochi mesi o molti anni e che poi scompaiono
per sempre o invece riaffiorano, appena mutati, dopo decenni e in tutt’altri
contesti.
Qual è il motore di queste dinamiche?
Pensate a ogni marca, a ogni prodotto, a ogni annuncio
pubblicitario come a un brandello di informazione, a un’idea che – come tutte
le idee – non vive da sola, ma che insieme alle altre formi sistemi il cui
funzionamento non differisca da quelli ecologici. Pensate a un mondo fatto di memi.
Come gli organismi biologici i memi instaurano un rapporto
di dipendenza o di predazione, di simbiosi, di parassitismo o di commensalità
con gli altri memi con cui si trovano a interagire: lussureggianti e intricatissime
foreste di significati, praterie di segni dove pascolano branchi di simboli, di
idee, di concetti che mettono in atto complesse strategie per la sopravvivenza
e il dominio.
I memi – è questa la tesi di Richard Dawkins – hanno vita
propria: usano gli esseri umani allo stesso modo in cui i virus usano altri
organismi viventi. I pubblicitari, e in genere coloro che si occupano di
comunicazione, possono avere un ruolo nello sviluppo del sistema, o perlomeno
possono credere di averlo, allo stesso modo in cui un militare che scateni una
guerra batteriologica può credere di sapere quel che sta facendo. Ma saranno comunque i memi ad agire i pubblicitari e non
viceversa: in fin dei conti si tratta pur sempre di esseri umani.
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Quello in panne è un Volkswagen Type 2 “Kombi”, di quelli con
il grande marchio al centro del frontale dove le nervature della lamiera formano
una grande V che divide la carrozzeria in due campiture di diverso colore; le tavole
da surf sul tetto e le quattro ragazze stile California dreaming che cercano di spingerlo fugano ogni dubbio: si
tratta inequivocabilmente di un Hippie
van.
Quella che invece arriva è una Nuova Mini Cabrio, vettura
che del progetto di Alec Issigonis non conserva nulla se non il nome e una vaga
ispirazione formale: l’appeal che quel mezzo pratico ed economico si era
conquistato consentendo a tanti la mobilità anche in tempi difficili è stato
riversato, con un’abile operazione di marketing, su un lussuoso bene da ostentare.
Lo stile di vita che faceva della libertà
da ogni cosa che costituisse un
impaccio al viaggiare, conoscere, amare un obiettivo universale è stato
rideclinato in libertà di viaggiare, conoscere, amare se si ha
la possibilità economica per farlo e indipendentemente dal prossimo. Operazione
paradigmatica di quello slittamento di senso, di quella frana semantica, che ha
riscritto la libertà sessantottina nella libertà dei mercati: dagli hippy agli
yuppie il passo è stato davvero breve.
Il furgoncino Volkswagen in cui chiunque trovava gioiosa e
promiscua ospitalità è irrimediabilmente rotto – definitivamente bocciato dalla
storia – e viene abbandonato sul bordo della strada insieme alle quattro
ragazze bionde. I due giovanotti sulla Mini senza rimpianti procedono oltre,
verso la felicità di un abbonamento televisivo.
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Non so se Dawkins voglia vantare la paternità del marketing virale e dell’idea di ecosistema di marca, sicuramente i
presupposti teorici di queste due pratiche devono molto allo scienziato
britannico.
Torniamo al nostro quadrante cartesiano: immaginate assi
orientati per le categorie “buono” e “genuino”. Date un voto al cioccolato e
alla frutta, alla pasta e al Big Mac. E immaginate di dover realizzare uno spot
per quest’ultimo prodotto: creerete un mondo in cui il grasso, il fritto, il
dolce e l’unto si sposano armoniosamente fra loro e con la vita in un mondo che
ignora l’esistenza del colesterolo e in cui la forma fisica è indipendente
dall’alimentazione. In questo mondo i problemi saranno quelli per i quali McDonald vuole essere una risposta. I vestiti
si adatteranno allo stile Mac, i colori non dovranno essere dissonanti con il
logo aziendale, tutti mostreranno sorrisi fra rivoli di ketchup e piatti di
carta plastificata.
Dall’ecosistema verrà
escluso non solo tutto ciò che possa risultare in conflitto evidente con i valori di marca, ma anche tutto quello che possa lasciare varchi a piccole
dissonanze potenzialmente capaci di veicolare associazioni non coerenti con lo
spazio semantico che la marca occupa. Vittime della comunicazione aziendale,
destinate a un ostracismo assoluto, saranno non solo idee relative a prodotti
concorrenziali, ma gli stili di vita non compatibili o semplicemente alternativi:
la pubblicità è immediatamente, intrinsecamente, politica nel suo escludere o
inglobare, nell’espandersi fin dove riesce a trovare compatibilità e nel
cancellare tutto ciò che gli è ostile.
Tutto ciò che può rappresenta una alternativa all’ecosistema
di marca va ignorato e, se non è proprio possibile, tradotto in un linguaggio
compatibile: il Type 2 è vecchio e scassato, lascia stare, corri a casa goderti
la Premier.
(A beneficio di chi non l’abbia
visto o voglia rivederlo questo link punta allo spot di cui si discute in
questo brano
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