giovedì 15 novembre 2007

“A rose is a rose is a rose is a rose”


Le piogge che da qualche giorno hanno ricominciato finalmente a cadere e l’aria meno avvampata di venti africani hanno permesso che il puzzo dei gas di scarico riprendesse il sopravvento su quello delle feci canine e dell’immondizia lasciata a fermentare negli angoli dove le autospazzatrici non riescono ad arrivare, e così il grande argomento dell’estate molfettese è stato derubricato a tema di secondaria importanza, in attesa che il prossimo precoce sbocciare dei mandorli messaggeri dell’ennesima frettolosa primavera, che a sua volta precederà un’altra estate più calda del secolo, lo riporti d’attualità.
Inadeguatezza strutturale dell’ASM o mala educazione del cittadini, tragico declino delle virtù municipali o carenze di organico, straordinari non più pagati o tramonto di una cultura che amava la strada come fosse un’estensione del focolare, fatto sta che, nelle piazze virtuali e no, i molfettesi si sono appassionati e divisi nel parlare di bottiglie di birra abbandonate e di cartacce, di mozziconi e di buste di plastica svolazzanti, insomma, di rifiuti.
Un argomento di difficile determinazione in verità perché, sembrerà forse strano, che cosa sia un rifiuto non è mica cosa facile a dirsi. La condizione di rifiuto non è uno stato oggettivo come quello di una rosa, che è una rosa perché è una rosa. Un rifiuto comporta la cessazione della volontà di possedere un oggetto che viene così, appunto, “rifiutato” per diventare una “cosa esposta”, res nullius, che come un relitto resterebbe in balia di correnti e marosi se non ci fossero leggi che disciplinano la materia e stabiliscono responsabilità e doveri di chi esercita l’atto del rifiuto.
Naturalmente la vita degli oggetti è assai varia: non tutti gli oggetti sono destinati a diventare spazzatura e quelli che lo diventano lo fanno in tempi e modi assai diversi. Prendiamo un caso particolare ma significativo: un libro può non diventare mai un rifiuto, o può farlo in breve tempo: non dipenderà dall’oggetto in sé, dalla qualità della carta o della rilegatura, ma dal suo contenuto, insomma dal suo valore simbolico.
In un certo senso, la stessa cosa succede per qualunque oggetto: quella che viene chiamata “civiltà dei consumi” reclama che il valore simbolico degli oggetti declini in fretta, assai prima del valore d’uso. “Viviamo nella società meno materialista che sia mai esistita”, ebbe a dire una volta Raymond Williams: a velocità crescente, infatti, noi divoriamo simboli. L’inarrestabile declino del compiacimento con cui mostro il cellulare comprato pochi mesi fa comporta il suo progressivo ma ineludibile trasformarsi in un rifiuto assai prima che l’oggetto smetta di funzionare: a consumarlo è il tempo accelerato dei desideri nutriti di spot e dei listini di borsa da tenere su.
Ma anche se di usura solo semantica si tratta, non vuol dire che non incida sul portafoglio. Un’autovettura perde valore commerciale in un modo prevedibile e facilmente calcolabile dalle compagnie assicuratrici anche quando resta inutilizzata in garage. E la sua perdita di valore non si ferma quando diventa uguale a zero: può anche diventare negativo. I rifiuti, una volta battezzati tali, sono esattamente questo: “beni a valore negativo”, oggetti, cioè, per sbarazzarci dei quali siamo disposti a pagare.
In Italia ci sono una data, il 1982, e un decreto presidenziale, il 915, che fanno da spartiacque.
Prima non c’era differenza fra rifiuti derivanti da produzione o da consumo, e la collettività si accollava il costo dello smaltimento di entrambi. Dopo c’è stato il doppio regime per i rifiuti urbani, il cui smaltimento è restato di competenza dei comuni, e per quelli speciali o industriali, che devono invece essere smaltiti da chi li produce. “Chi inquina paga” è il giusto principio a cui si ispirava la legge. Si è così creato un mercato nel quale i beni “rifiutati” sono rinati come merci; ma siccome è legge di ragione e di mercato quella per cui ogni azienda cerca di ridurre i costi, e a volte può succedere anche che chi dal ruolo che occupa è chiamato a perseguire il risparmio possa essere indotto da circostanze galeotte ad evitare di farsi troppi scrupoli, il 1982 è stata anche la data di nascita dell’ecomafia.
Ma non è questa la storia che intendevo raccontare, perlomeno non oggi. Volevo invece parlare di questa capacità meravigliosa che l’uomo ha di attribuire i nomi alle cose e con i nomi ad esse dare vita e senso. Sembra magia, non siete d’accordo? Vicino a Nairobi il popolo della discarica di Koroghoco ribattezza con nomi nuovi gli scarti del mondo e così sopravvivere. Come uno sciamano Duchamp pronunciava nomi nuovi per le cose e infondeva una vita diversa a orinatoi e ruote di bicicletta. Rubando parole ad Erasmo i pubblicitari ci convincono di quanto sia ragionevole la follia di amare auto fatte per sognare di correre veloci immaginando di vivere in un mondo meno claustrofobico. Tranne quello che viene da tombe e da città sotterrate sotto lava e cenere, ciò che esponiamo sotto le preziose teche dei nostri musei archeologici proviene da discariche: per qualunque oggetto è possibile un futuro di redenzione e rinascita. Aveva ragione Baudelaire: veramente “ci aggiriamo come fantasmi in una foresta di simboli”.

1 commento:

beppe ha detto...

Sono completamente d'accordo.

"per qualunque oggetto è possibile un futuro di redenzione e rinascita" e, aggiungo io, di un allungamento dei tempi di vita.

Leggevo qualche settimana fa su una rivista specializzata, che Nokia sta cercando di rientrare in possesso di vecchi cellulari che giacciono inutilizzati nei cassetti degli utenti, in modo da riutilizzarli (magari in mercati emergenti). La leva per farlo, manco a dirlo, è economica e di scambio con gli utenti.

Enti pubblici e aziende, per evitare i costi di smaltimento, cercano di disfarsi di PC et similia donandoli a scuole e privati desiderosi di tecnologia (ignoro chi alla fine paghi lo smaltimento. Un'idea ce l'avrei).

P.S.

Brionvega è tornata con il modello di Radio che faceva bella mostra di sè al MOMA (e nella libreria del mio cugino architetto).
Riuso delle idee o appannamento creativo?