Eccomi qui, precipitato in un tempo senza tempo, con la
città trasformata nei luoghi stessi in cui si svolsero i Fatti, con la gente che
si affolla per le strade e nelle piazze o si affaccia dai balconi-palchi per
assistere alla messa in scena dei momenti della Passione (a proposito è proprio
di qui che viene la parola “messa”), e con la città tutta che si guarda e si
guarda guardare mentre recita, in un intreccio di sguardi che vicendevolmente si
rimandano e ostentano la Rivelazione che gli viene mostrata.
Le celebrazioni pasquali, così come le conosciamo, sono una
reinvenzione barocca di riti medievali che vengono completamente riscritti per
riadattarli alle nuove esigenze della propaganda della fede nel periodo della
Controriforma, alle sue scenografie e alla sua reinvenzione delle immagini. Mentre
nelle terre della Riforma un nuovo iconoclasmo faceva
rapidamente tramontare il Rinascimento tedesco, qui da noi era tutto un
tripudio di ascese vertiginose, di cieli sconfinati affollati di ali
multicolori, di ostensori radianti e raggi che trafiggono, di trasalimenti della
carme, di martirii, di sangue, di spine e di flagelli.
Ma questa è già la seconda “interfaccia”: la prima è quella
che contrappone e trasforma i riti della morte e resurrezione di Attis e di Adone e in genere quelli delle religioni
misteriche – con tanto di processioni con fiaccole e flagellanti e di “giardini
di Adone” (i semi di grano e lenticchie tenuti al buio e fatti germogliare) che
andranno poi a decorare i nostri sepolcri – nei “nostri” misteri.
Lo smembramento del carro di Matera che altro è se non quel
che resta dello smembramento di Dioniso-Zagreo e lo svelamento del più grande
dei misteri, che la vita si nutre della morte?
Il tempo del mito per gli antichi era un tempo fuori dal
tempo, l’immobile verità che giace sotto la mutevolezza del divenire. La
ciclicità, l’eterno ritorno, il solo modo di percepire e raccontare quella
fissità, un po’ come ascoltare un brano musicale congelato per sempre su un vecchio
disco di vinile.
Nel tempo immobile gli dei non muoiono e quindi non vivono.
E invidiano la vita agli uomini e il loro essere mortali:
questo è il mistero celebrato nei riti orfici e tramandato da Anassimandro, «da
dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo
necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione
dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo».
Il Cristianesimo traduce il tempo del mito antico, il
tempo fuori dal tempo, nel tempo delle Scritture, in quell’illo tempore remoto ma
storico; e traduce la ciclicità da rappresentazione nel tempo dell’eterno e dell’immobile nella ripetizione di ciò che è avvenuto storicamente e il cui ricordo viene simbolicamente
ripetuto con l’anno liturgico.
È solo così che ci può essere la Speranza: perché ci sia
vita dopo la morte c’è bisogno di un inizio e una fine. Magari un happy end.
(I “romanzi” antichi infatti non hanno capo né coda: sono
solo successioni di cose che accadono)
Ma se il tempo lineare permette la Speranza, permette
anche la storia e la scienza e l’invenzione illuministica del progresso. E il
frutto malevolo dell’evoluzionismo. Se l’uomo è mutevole, come può essere immagine
di Dio per definizione perfetto e quindi immutabile?
Ed eccoci qui precipitati dalla scienza nuovamente nel deserto
della speranza, costretti dalla cacciata
del sacro via dal quotidiano a poter contare solo sulla “gabbia di acciaio”
della razionalità e dell’economia di mercato per dare un senso al nostro agire.
Dove non
esistono più le sacre rappresentazioni Pasqua è già diventata solo poco più dell’ovetto e della colomba, come Natale poco più che il panettone
e i regali sotto l’albero.
Qui, da dove scrivo, la Pasqua resiste perché non si
tratta di un rito intimo o comunque individuale, ma richiede una straordinaria partecipazione
collettiva, che è difficilmente traducibile nel linguaggio proprio della
civiltà del consumo e della pubblicità.
Però non bisogna disperare: gli strateghi del marketing
territoriale sono al lavoro.
3 commenti:
Bella dissertazione. Ma a me la Pasqua piace. Coi suoi riti, le tradizioni, gli incontri, i profumi, l' incedere lento.
ti sei scordato il "pizzarello"
A me la pasqua non piace.
Come vedo gli incappucciati mi ricordo l'inquisizione.
Come vedo la folla mi ricordo i pongrom locali http://it.wikipedia.org/wiki/Miracolo_eucaristico_di_Trani
Inoltre mi ricorda come il popolo molfettese uccise straziandoli i liberali della repubblica partenopea, precisamente a sandomenico, e poi con grande tripudio porto le statue in giro.
Ora proprio a sandomenico innalzeranno una statua al buon pastore invece di una lapide ai martiri del 5 febbraio 1799.
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