giovedì 17 aprile 2014

Pasqua a Molfetta


Eccomi qui, precipitato in un tempo senza tempo, con la città trasformata nei luoghi stessi in cui si svolsero i Fatti, con la gente che si affolla per le strade e nelle piazze o si affaccia dai balconi-palchi per assistere alla messa in scena dei momenti della Passione (a proposito è proprio di qui che viene la parola “messa”), e con la città tutta che si guarda e si guarda guardare mentre recita, in un intreccio di sguardi che vicendevolmente si rimandano e ostentano la Rivelazione che gli viene mostrata.
Le celebrazioni pasquali, così come le conosciamo, sono una reinvenzione barocca di riti medievali che vengono completamente riscritti per riadattarli alle nuove esigenze della propaganda della fede nel periodo della Controriforma, alle sue scenografie e alla sua reinvenzione delle immagini. Mentre nelle terre della Riforma un nuovo iconoclasmo faceva rapidamente tramontare il Rinascimento tedesco, qui da noi era tutto un tripudio di ascese vertiginose, di cieli sconfinati affollati di ali multicolori, di ostensori radianti e raggi che trafiggono, di trasalimenti della carme, di martirii, di sangue, di spine e di flagelli.
Ma questa è già la seconda “interfaccia”: la prima è quella che contrappone e trasforma i riti della morte e resurrezione di  Attis e di Adone e in genere quelli delle religioni misteriche – con tanto di processioni con fiaccole e flagellanti e di “giardini di Adone” (i semi di grano e lenticchie tenuti al buio e fatti germogliare) che andranno poi a decorare i nostri sepolcri – nei “nostri” misteri.
Lo smembramento del carro di Matera che altro è se non quel che resta dello smembramento di Dioniso-Zagreo e lo svelamento del più grande dei misteri, che la vita si nutre della morte?
Il tempo del mito per gli antichi era un tempo fuori dal tempo, l’immobile verità che giace sotto la mutevolezza del divenire. La ciclicità, l’eterno ritorno, il solo modo di percepire e raccontare quella fissità, un po’ come ascoltare un brano musicale congelato per sempre su un vecchio disco di vinile.
Nel tempo immobile gli dei non muoiono e quindi non vivono.
E invidiano la vita agli uomini e il loro essere mortali: questo è il mistero celebrato nei riti orfici e tramandato da Anassimandro, «da dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo».
Il Cristianesimo traduce il tempo del mito antico, il tempo fuori dal tempo, nel tempo delle Scritture, in quell’illo tempore remoto ma storico; e traduce la ciclicità da rappresentazione nel tempo dell’eterno e dell’immobile nella ripetizione di ciò che è avvenuto storicamente e il cui ricordo viene simbolicamente ripetuto con l’anno liturgico. 
È solo così che ci può essere la Speranza: perché ci sia vita dopo la morte c’è bisogno di un inizio e una fine. Magari un happy end.
(I “romanzi” antichi infatti non hanno capo né coda: sono solo successioni di cose che accadono)
Ma se il tempo lineare permette la Speranza, permette anche la storia e la scienza e l’invenzione illuministica del progresso. E il frutto malevolo dell’evoluzionismo. Se l’uomo è mutevole, come può essere immagine di Dio per definizione perfetto e quindi immutabile?
Ed eccoci qui precipitati dalla scienza nuovamente nel deserto della speranza, costretti dalla cacciata del sacro via dal quotidiano a poter contare solo sulla “gabbia di acciaio” della razionalità e dell’economia di mercato per dare un senso al nostro agire.
Dove non esistono più le sacre rappresentazioni Pasqua è già diventata solo poco più dell’ovetto e della colomba, come Natale poco più che il panettone e i regali sotto l’albero.
Qui, da dove scrivo, la Pasqua resiste perché non si tratta di un rito intimo o comunque individuale, ma richiede una straordinaria partecipazione collettiva, che è difficilmente traducibile nel linguaggio proprio della civiltà del consumo e della pubblicità.  
Però non bisogna disperare: gli strateghi del marketing territoriale sono al lavoro.



3 commenti:

Pietro ha detto...

Bella dissertazione. Ma a me la Pasqua piace. Coi suoi riti, le tradizioni, gli incontri, i profumi, l' incedere lento.

Antonello Mastantuoni ha detto...

ti sei scordato il "pizzarello"

g.pani ha detto...

A me la pasqua non piace.
Come vedo gli incappucciati mi ricordo l'inquisizione.
Come vedo la folla mi ricordo i pongrom locali http://it.wikipedia.org/wiki/Miracolo_eucaristico_di_Trani
Inoltre mi ricorda come il popolo molfettese uccise straziandoli i liberali della repubblica partenopea, precisamente a sandomenico, e poi con grande tripudio porto le statue in giro.
Ora proprio a sandomenico innalzeranno una statua al buon pastore invece di una lapide ai martiri del 5 febbraio 1799.