L'enfer, c'est les autres
Il primo settembre dello scorso anno, con la rassegnazione
che prende chi si arrende di fronte all’inevitabile, l’Amministrazione comunale
di Molfetta ha ordinato la rimozione di Un
altro orizzonte. L’opera è stata fatta a pezzi e i suoi resti avviati a discarica.
L’Assessore alla Cultura ha nell’occasione ringraziato il
maestro Hidetoshi Nagasawa; l’Artista, che in precedenza aveva definito
“un errore” la collocazione in cala Sant’Andrea dell’opera che era stata
immaginata e realizzata per un altro spazio, non ha commentato; quelli che
avevano chiesto a gran voce la rimozione dell’opera hanno espresso
soddisfazione; quelli a cui l’opera piaceva sono rimasti sconcertati; quelli
che non avevano un’opinione si sono definitivamente smarriti.
Dopo pochi giorni la vicenda era sparita dalle cronache e si
avviava rapidamente al dimenticatoio, spinta dalla voglia manifesta di cancellare
in fretta una vicenda scomoda per tutti.
Ed è un vero peccato. Perché se è vero che lo specifico
dell’arte è cosa difficilmente penetrabile, campo misterioso e sfuggente, e
nessuna ragione al mondo potrà mai spingermi a spendere alcuna parola
sull’argomento che non sia preceduta da un complemento di limitazione – della
mia opinione si tratterebbe e dunque assai poca cosa – pure in questa vicenda
vi sono indizi di cui non si può non tener conto e che portano a ritenere che ciò
che è successo a cala Sant’Andrea sia uno di quegli specifici prodigi di cui è
composta la materia dell’arte e meriti di essere ricordato e discusso a lungo.
I fortunati, quelli per i quali il prodigio si è manifestato
in tutta la sua enigmatica potenza, sono stati quelli che hanno avuto fede,
quelli che, fino al giorno prima che l’opera fosse smembrata, ancora conducevano
per mano i bambini al suo cospetto, in pellegrinaggio, perché ne fossero nutrite
le loro anime acerbe. Gli altri – gli scettici, i dubbiosi, gli aridi – quelli
dovranno accontentarsi di ricostruire il prodigio in via indiretta cercando di
approssimarsi il più possibile con l’immaginazione lì dove la mancanza di fede
impedisce loro irrimediabilmente di arrivare.
A loro – da me, scettico fra gli scettici, arido fra gli
aridi – è dedicata questa nota.
I complicati percorsi della Storia hanno fatto sì che in
Occidente la parola “arte” sia diventata sinonimo di libertà di espressione e
che un “artista” – “alter deus” – vada considerato sacro e inviolabile nella
sua genialità creativa. Oggi nell’enciclopedia dei sentimenti correnti l’idea
di distruggere un’opera d’arte occupa un’area semantica definita dal ripugnante
e viene associata alle forme più brute, integraliste e oscurantiste della
barbarie. Noi tutti avvertiamo la distruzione di opere d’arte – dai falò delle
vanità ai grandi Buddha di Bamiyan – come ferite orribili che privano l’umanità
di bellezza e che impoveriscono il mondo di intelligenza.
La modernità occidentale si fonda sulla libertà di
espressione e, soprattutto, di immagine: le vicende di Charlie Hebdo e il dibattito che si sta sviluppando intorno alle
due polarità delle caricature di Maometto da un lato e della la censura su Peppa Pig nelle scuole britanniche dall’altro
è di questo che parla.
Poiché dunque “civile” e “democratico” risultano categorie
in totale opposizione rispetto alla distruzione di un’opera d’arte e poiché la
collettività molfettese vorrebbe ritenere di poter essere collocata a buon
titolo nel novero delle collettività civili, perché fosse demolito ciò che era
stato eretto in cala Sant’Andrea doveva essere escluso dal novero degli oggetti
d’arte.
Il destino di Un altro
orizzonte si è trovato di conseguenza a dipendere da un dibattito – “Arte o
non Arte” – che poteva solo avvitarsi su se stesso all’infinito.
Inutile parlare di “Bello” (l’Arte ne può fare a meno), vano
discutere dell’opportunità della collocazione (l’Arte può essere scomoda, ma come
potrebbe mai essere inopportuna?), fuorviante disquisire delle tecniche
ingegneristiche utilizzate (la tecnica è solo un mezzo); neanche l’intervento
di Nagasawa – che ad alcuni è sembrato risolutivo – ha chiarito alcunché sulla
natura dell’opera: l’Arte può prescindere dalle intenzioni dell’autore.
(Per inciso, anche proporsi di limitare il disaccordo non sembra
granché come idea: ci hanno provato solo fanatici dittatori e qualche loro
triste sodale).
Alla fine la ragione ufficiale e sufficiente per la
demolizione è stata formalizzata nel rischio che le traversie marine potessero,
facendo marcire il legno e corrodendo il metallo, compromettere la stabilità
dell’opera mettendo a rischio la pubblica incolumità. Ragione palesemente
inconsistente – le opere d’arte danneggiate e/o in pericolo si riparano e/o si
ricoverano in luoghi opportuni – ma almeno ha chiuso, nel sollievo generale,
uno stallo che minacciava di trascinarsi insopportabilmente a lungo.
Il primo colpo di martello è stato inferto a qualcosa il cui
dubbioso statuto era stato, dunque, risolto da un timbro e una firma. L’operaio
che sollevava il martello era stato così mondato da ogni colpa; dal punto di
vista della ufficialità dei burocrati quel che faceva non violava alcuna legge
morale, non infrangeva tabù, non sfidava alcuno stigma, né aveva implicazione
linguistica o metafisica alcuna: l’operaio faceva solo il suo lavoro e a buon
diritto poteva avere fretta di ritornare dalla sua famiglia. Il suo cavare
bulloni e fare a pezzi il montante è stato solo cavare bulloni e fare a pezzi
il montante. Ferro e legno. Null’altro.
Ma l’inconsapevole viandante, ignaro di burocrazia, che
fosse lì convenuto a nutrirsi di Arte avrebbe assistito attonito a una
profanazione e, in maniera repentina e folgorante, avrebbe visto compiersi un
terribile prodigio: in nome di qualcuno qualcosa diventava qualcos’altro. In
questo consiste la transustanziazione. E per questo, in quanto fatto pertinente
al sentimento dell’arte, quel che è avvenuto a cala Sant’Andrea va ricordato
come un evento memorabile.
Responsabile è la parola e il gesto dell’indicare: guardate
tutti questa non è un’opera d’arte. Non molto prima era stato detto: «Venite e
guardate!». Ma cambiano gli dei, non è mica una novità, e in cala Sant’Andrea adesso
c’era un rifiuto speciale.
Restate allegri: lo smarrimento dei discepoli e dei
credenti, lo smarrimento di chi credeva e avrebbe voluto continuare a credere, non
è mai definitivo né irrimediabile. L’immutabilità della provincia reca con sé
il non trascurabile vantaggio di sradicare dall’orizzonte della coscienza tutti
gli eventi che potrebbero turbarla. Il tempo, di cui si dice che tutto guarisca,
in provincia agisce in fretta.
Molte questioni sono state aperte dalla vicenda e, a mio
modo di vedere, affascinanti. E che restino aperte non è cosa indifferente per
la democrazia, dovrebbe essere chiaro. Il silenzio calato su questa vicenda sarebbe
rappresentato magistralmente dalla cancellata che un po’ più in là ha chiuso
(per sempre?) uno spazio che da sempre consideravo uno dei più belli della mia
città, o dal porto nuovo che ha cancellato (per sempre!) un altro orizzonte,
quello verso il Gargano. In nome di chi? E per cosa, poi?
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Postilla.
«There
really is no such thing as Art. There are only artists» ha scritto Gombrich,
non esiste una cosa chiamata Arte, esistono solo gli artisti. Le difficoltà
maggiori nello scrivere questo articolo sono venute dal condividere questa
visione dovendo, al tempo stesso, dar conto del fatto che ciò che racconto è potuto
avvenire solo perché è opinione diffusa che, al contrario, una cosa chiamata Arte esista.
Questa difficoltà si manifesta in maniera particolare nell’uso,
forse non sempre coerente, che ho fatto delle maiuscole. È consuetudine
scrivere “Arte” quando, come nel caso di “Geografia” o “Storia” ci si riferisca
alla materia di insegnamento. Se si intende invece la pratica artistica la
parola andrebbe minuscola e così pure quando si vuole indicare qualcosa di
ancora più astratto come per esempio il "sentimento dell'arte".
Accade però che ci sia chi scriva “Arte” per intendere “l’Arte con la A
maiuscola”, cioè proprio ciò che Gombrich sostiene che non esista. Facendo
riferimento a questo modo di pensare da cui intendo prendere le distanze avrei
dovuto sempre scrivere “Arte” fra virgolette, il che avrebbe appesantito non
poco la lettura. Vi ho rinunciato rimettendomi alla intelligenza del lettore.
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