sabato 7 febbraio 2015

Orizzonti scomparsi





L'enfer, c'est les autres


Il primo settembre dello scorso anno, con la rassegnazione che prende chi si arrende di fronte all’inevitabile, l’Amministrazione comunale di Molfetta ha ordinato la rimozione di Un altro orizzonte. L’opera è stata fatta a pezzi e i suoi resti avviati a discarica.
L’Assessore alla Cultura ha nell’occasione ringraziato il maestro Hidetoshi Nagasawa; l’Artista, che in precedenza aveva definito “un errore” la collocazione in cala Sant’Andrea dell’opera che era stata immaginata e realizzata per un altro spazio, non ha commentato; quelli che avevano chiesto a gran voce la rimozione dell’opera hanno espresso soddisfazione; quelli a cui l’opera piaceva sono rimasti sconcertati; quelli che non avevano un’opinione si sono definitivamente smarriti.
Dopo pochi giorni la vicenda era sparita dalle cronache e si avviava rapidamente al dimenticatoio, spinta dalla voglia manifesta di cancellare in fretta una vicenda scomoda per tutti.
Ed è un vero peccato. Perché se è vero che lo specifico dell’arte è cosa difficilmente penetrabile, campo misterioso e sfuggente, e nessuna ragione al mondo potrà mai spingermi a spendere alcuna parola sull’argomento che non sia preceduta da un complemento di limitazione – della mia opinione si tratterebbe e dunque assai poca cosa – pure in questa vicenda vi sono indizi di cui non si può non tener conto e che portano a ritenere che ciò che è successo a cala Sant’Andrea sia uno di quegli specifici prodigi di cui è composta la materia dell’arte e meriti di essere ricordato e discusso a lungo.  
I fortunati, quelli per i quali il prodigio si è manifestato in tutta la sua enigmatica potenza, sono stati quelli che hanno avuto fede, quelli che, fino al giorno prima che l’opera fosse smembrata, ancora conducevano per mano i bambini al suo cospetto, in pellegrinaggio, perché ne fossero nutrite le loro anime acerbe. Gli altri – gli scettici, i dubbiosi, gli aridi – quelli dovranno accontentarsi di ricostruire il prodigio in via indiretta cercando di approssimarsi il più possibile con l’immaginazione lì dove la mancanza di fede impedisce loro irrimediabilmente di arrivare.
A loro – da me, scettico fra gli scettici, arido fra gli aridi – è dedicata questa nota.

I complicati percorsi della Storia hanno fatto sì che in Occidente la parola “arte” sia diventata sinonimo di libertà di espressione e che un “artista” – “alter deus” – vada considerato sacro e inviolabile nella sua genialità creativa. Oggi nell’enciclopedia dei sentimenti correnti l’idea di distruggere un’opera d’arte occupa un’area semantica definita dal ripugnante e viene associata alle forme più brute, integraliste e oscurantiste della barbarie. Noi tutti avvertiamo la distruzione di opere d’arte – dai falò delle vanità ai grandi Buddha di Bamiyan – come ferite orribili che privano l’umanità di bellezza e che impoveriscono il mondo di intelligenza.
La modernità occidentale si fonda sulla libertà di espressione e, soprattutto, di immagine: le vicende di Charlie Hebdo e il dibattito che si sta sviluppando intorno alle due polarità delle caricature di Maometto da un lato e della la censura su Peppa Pig nelle scuole britanniche dall’altro è di questo che parla.
Poiché dunque “civile” e “democratico” risultano categorie in totale opposizione rispetto alla distruzione di un’opera d’arte e poiché la collettività molfettese vorrebbe ritenere di poter essere collocata a buon titolo nel novero delle collettività civili, perché fosse demolito ciò che era stato eretto in cala Sant’Andrea doveva essere escluso dal novero degli oggetti d’arte.
Il destino di Un altro orizzonte si è trovato di conseguenza a dipendere da un dibattito – “Arte o non Arte” – che poteva solo avvitarsi su se stesso all’infinito.
Inutile parlare di “Bello” (l’Arte ne può fare a meno), vano discutere dell’opportunità della collocazione (l’Arte può essere scomoda, ma come potrebbe mai essere inopportuna?), fuorviante disquisire delle tecniche ingegneristiche utilizzate (la tecnica è solo un mezzo); neanche l’intervento di Nagasawa – che ad alcuni è sembrato risolutivo – ha chiarito alcunché sulla natura dell’opera: l’Arte può prescindere dalle intenzioni dell’autore.
(Per inciso, anche proporsi di limitare il disaccordo non sembra granché come idea: ci hanno provato solo fanatici dittatori e qualche loro triste sodale).
Alla fine la ragione ufficiale e sufficiente per la demolizione è stata formalizzata nel rischio che le traversie marine potessero, facendo marcire il legno e corrodendo il metallo, compromettere la stabilità dell’opera mettendo a rischio la pubblica incolumità. Ragione palesemente inconsistente – le opere d’arte danneggiate e/o in pericolo si riparano e/o si ricoverano in luoghi opportuni – ma almeno ha chiuso, nel sollievo generale, uno stallo che minacciava di trascinarsi insopportabilmente a lungo.
Il primo colpo di martello è stato inferto a qualcosa il cui dubbioso statuto era stato, dunque, risolto da un timbro e una firma. L’operaio che sollevava il martello era stato così mondato da ogni colpa; dal punto di vista della ufficialità dei burocrati quel che faceva non violava alcuna legge morale, non infrangeva tabù, non sfidava alcuno stigma, né aveva implicazione linguistica o metafisica alcuna: l’operaio faceva solo il suo lavoro e a buon diritto poteva avere fretta di ritornare dalla sua famiglia. Il suo cavare bulloni e fare a pezzi il montante è stato solo cavare bulloni e fare a pezzi il montante. Ferro e legno. Null’altro.
Ma l’inconsapevole viandante, ignaro di burocrazia, che fosse lì convenuto a nutrirsi di Arte avrebbe assistito attonito a una profanazione e, in maniera repentina e folgorante, avrebbe visto compiersi un terribile prodigio: in nome di qualcuno qualcosa diventava qualcos’altro. In questo consiste la transustanziazione. E per questo, in quanto fatto pertinente al sentimento dell’arte, quel che è avvenuto a cala Sant’Andrea va ricordato come un evento memorabile.
Responsabile è la parola e il gesto dell’indicare: guardate tutti questa non è un’opera d’arte. Non molto prima era stato detto: «Venite e guardate!». Ma cambiano gli dei, non è mica una novità, e in cala Sant’Andrea adesso c’era un rifiuto speciale.
Restate allegri: lo smarrimento dei discepoli e dei credenti, lo smarrimento di chi credeva e avrebbe voluto continuare a credere, non è mai definitivo né irrimediabile. L’immutabilità della provincia reca con sé il non trascurabile vantaggio di sradicare dall’orizzonte della coscienza tutti gli eventi che potrebbero turbarla. Il tempo, di cui si dice che tutto guarisca, in provincia agisce in fretta.

Molte questioni sono state aperte dalla vicenda e, a mio modo di vedere, affascinanti. E che restino aperte non è cosa indifferente per la democrazia, dovrebbe essere chiaro. Il silenzio calato su questa vicenda sarebbe rappresentato magistralmente dalla cancellata che un po’ più in là ha chiuso (per sempre?) uno spazio che da sempre consideravo uno dei più belli della mia città, o dal porto nuovo che ha cancellato (per sempre!) un altro orizzonte, quello verso il Gargano. In nome di chi? E per cosa, poi?


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Postilla.
«There really is no such thing as Art. There are only artists» ha scritto Gombrich, non esiste una cosa chiamata Arte, esistono solo gli artisti. Le difficoltà maggiori nello scrivere questo articolo sono venute dal condividere questa visione dovendo, al tempo stesso, dar conto del fatto che ciò che racconto è potuto avvenire solo perché è opinione diffusa che, al contrario, una cosa chiamata Arte esista.
Questa difficoltà si manifesta in maniera particolare nell’uso, forse non sempre coerente, che ho fatto delle maiuscole. È consuetudine scrivere “Arte” quando, come nel caso di “Geografia” o “Storia” ci si riferisca alla materia di insegnamento. Se si intende invece la pratica artistica la parola andrebbe minuscola e così pure quando si vuole indicare qualcosa di ancora più astratto come per esempio il "sentimento dell'arte". Accade però che ci sia chi scriva “Arte” per intendere “l’Arte con la A maiuscola”, cioè proprio ciò che Gombrich sostiene che non esista. Facendo riferimento a questo modo di pensare da cui intendo prendere le distanze avrei dovuto sempre scrivere “Arte” fra virgolette, il che avrebbe appesantito non poco la lettura. Vi ho rinunciato rimettendomi alla intelligenza del lettore.


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