"È
vero, principe, che una volta avete detto
che il mondo sarà salvato dalla
bellezza?"
F. M. Dostoevskij, L'Idiota
Piazzetta di via Giovene
Se cercate “piazzetta di via Giovene” sullo stradario di
Molfetta, non la troverete. Troverete invece “piazzetta Giovene”, quella che si
apre di fronte all’ingresso secondario del Seminario vescovile e che ha il
busto dell’Abate al centro, e “via Giovene” che da via Tenente Ragno, quando appena
comincia a chiamarsi via Madonna dei Martiri, porta a via Emanuele Ribera dopo essersi
allargata in una piazza senza nome che viene comunemente chiamata, anche questa,
“piazza Giovene”. Per arrivarci bisogna che risaliate via San Rocco
fiancheggiando il complesso di San Domenico, sbuchiate in quello spiazzo che
nella toponomastica popolare continua a essere indicato come quello del “Bar
Cubana” anche se il bar ha cambiato nome un numero imprecisato di volte e
adesso si chiama Three Angels e, dopo
che vi sarete lasciati a sinistra via Crocifisso, percorriate via Giovene per poco
più di un centinaio di metri fino a trovare alla vostra destra uno slargo a
pianta triangolare con al centro un marciapiede dalla medesima forma: sarete a
destinazione. Volendo prendere in considerazione una alternativa più suggestiva,
potreste partire da piazza Paradiso, imboccare via Crocifisso e girare subito a
sinistra per raggiungere via Santa Giovina che va percorsa tutta fino in fondo in
direzione del mare per finire così in via Giovene. Lì, al di sopra di quella
che una volta doveva essere una modesta falesia e adesso sono diventate scale
che portano su vicolo I Madonna dei Martiri, c’è “piazzetta di via Giovene”.
Le ragioni della presenza nel tessuto urbano di questo luogo,
a cui la toponomastica ufficiale non riconosce la dignità di un nome, vanno
rintracciate nell’orientamento di quella sorta di misterioso decumano che è via
Santa Giovina, asse centrale di una mandorla allungata fra via Immacolata e via
Crocifisso che conserva lo stesso allineamento stradale del Centro antico e dunque
guarda ancora verso Ruvo mentre tutto intorno il reticolo ottocentesco è volto
verso Terlizzi: la “piazzetta di via Giovene” è uno dei segni lasciato nell’ordito
stradale da questa rotazione.
In un angolo di questa cicatrice urbana, alla presenza del vescovo
e del sindaco di Molfetta, nonché delle immancabili “autorità civili, politiche
e militari” come da comunicato ufficiale della diocesi, il 25 aprile scorso è
stata scoperta una statua raffigurante Cristo
buon pastore realizzata dalla Gigante Marmi dei F.lli Gigante Cosimo &
Paolo s.n.c., ditta specializzata in marmi e sede sociale in via del Cimitero a
Molfetta.
Il manufatto, montato su un piedistallo dotato di inserti di
prato in plastica da campetto di calcetto e di lapide autocelebrativa che
sarebbe in totale mancanza di sintonia stilistica con il cristo se non fosse con
quello solidale nella chiara fattura cimiteriale, si presentava a pochi giorni
dall’inaugurazione circondata da vasi e portafiori con rose sfiorite. Lungo i
bordi del marciapiede che occupa il centro della piazzetta panchine verdi in
metallo traforato fissate rozzamente al pavimento con informi blocchi di
cemento e alcuni ligustri di fresco impianto, uno dei quali già secco.
È sufficiente la fede a giustificare tanta mediocrità?
Nella delibera con cui viene autorizza la collocazione della
statua l’Amministrazione comunale rassicura in via preliminare la cittadinanza della
sua volontà di «implementare l’arredo urbano e il decoro della piazza». Da
questa espressione si desume che “implementare” nell’idioletto burocratese in
uso alla Giunta ha acquisito una stupefacente ampiezza semantica e che la statua
raffigurante Cristo buon pastore è
sembrata agli assessori tutti rispondente alla finalità dichiarata. Nella
medesima delibera si fa cenno a una «relazione dell’assessore alla Cura della
città, Marilena Lucivero» che dobbiamo ritenere favorevole: purtroppo l’assenza
di tale relazione dall’incartamento lascia i cittadini nella impossibilità di conoscere
con certezza il pensiero dell’assessore sul manufatto, sul basamento e sulla sistemazione
del tutto.
Stabilitane l’idoneità e confidando che l’opera «potrebbe
garantire un aumento della socializzazione legata alla Casa Canonica di Via
Giovene i cui utenti, stando a quanto riferisce il parroco non hanno un luogo
di incontro idoneo», viene concesso al sacerdote l’uso gratuito di «circa» 16
mq di suolo pubblico.
Questo è tutto quel che c’è nell’ufficialità delle carte.
Data la povertà delle argomentazioni che accompagnano la richiesta e
l’inesistenza di quelle con cui viene accolta, le ragioni che hanno spinto
l’Amministrazione comunale a consentire la collocazione del manufatto sono lasciate
all’immaginazione.
Secondo i difensori dell’operato della Giunta e i sodali del
parroco chi ha protestato, trovando il manufatto di una bruttezza mortificante
e lamentandosi del danno estetico apportato a quella che era stata una quasi
dimenticata eppure decorosa piazzetta, l’avrebbe fatto senza alcuna base
argomentale. Appellandosi all’insondabilità del gusto e alla conseguente
libertà di apprezzare ciò che si vuole, costoro hanno definito le proteste “incomprensibili”
e “inesistente” la materia del contendere. A fronte del gradimento degli
abitanti del quartiere chi mai avrebbe diritto a muovere obiezioni e su quali
basi?
Va da sé che una interpretazione così radicale
dell’aleatorietà del gusto porrebbe per principio un amministratore nella
condizione di dover sopportare qualunque contestazione senza aver ragione di
replicare; eppure chi ha mosso critiche è stato accusato di averlo fatto in
maniera tendenziosa e per ragioni se non deliberatamente strumentali sicuramente
stupidamente inopportune: pretendere di discutere di bellezza sarebbe già in sé
cosa futile, ma in tempi di grandi travagli come i nostri sarebbe invece grave,
un tradimento compiuto nei confronti del principio di realtà, un po’ come
discutere di quanti angeli possano danzare sulla capocchia di uno spillo mentre
il Saladino avanza da Oriente.
C’è stato anche chi, assai più sottilmente, non ha cercato
di difendere la qualità estetica del manufatto ma ha sostenuto che le immagini
sacre siano assai più che “semplici espressioni artistiche”, rifacendosi così a
quelle correnti del pensiero cattolico che vorrebbero che la rappresentazione
del sacro possa, e anzi persino debba, prescindere dalla qualità artistica.
Proprio la carenza di talento manifestato dall’autore – a rigore la sua
irrilevanza! – sarebbe infatti prova della fede che ha guidato la sua mano,
l’ingenuità del linguaggio la garanzia di mancanza di affettazione, la modestia
espressiva l’evidenza di assenza di superbia e di purezza d’intenti. Il manufatto,
mondato del sovrappiù di senso proprio dell’opera d’arte, non ergerà alcuna
barriera a scoraggiare i semplici e non turberà le loro anime. E poi forse che a
piangere lacrime di sangue non sono sempre e solo cristi e madonnine dozzinali,
colature seriali di gesso, anonimi stampi collocati in tristi tinelli o sordidi
sottoscala? Qualcuno ha mai visto una capolavoro rinascimentale innalzarsi a
tanto?
La via del kitsch
Si dice che innumerevoli siano le strade che conducono alle
fede: se dunque alla Via Pulchritudinis
qualcuno preferirà la strada del kitsch, chi potrà mai obiettare qualcosa? Chi
potrà mai deridere chi preferisca ricevere conforto dall’opera di una macchina
a controllo numerico piuttosto che da quella di artisti in carne e ossa? Certo non io. Almeno fino a quando una amministrazione
pubblica avvallando quella scelta e facendosene portatrice non ne sveli la vera
natura politica.
In centocinquant’anni il Kitsch ne ha fatta di strada: da
vera arte della felicità ha
soddisfatto le esigenze estetiche della borghesia rampante, è stato
l’indispensabile guida all’autocelebrazione dei regimi totalitari, ha insegnato
alla middle class i suoi bisogni, è stato la cifra estetica della propaganda e
della pubblicità. Come un tarlo ha svuotato il Romanticismo dall’interno, l’ha
trasformato in un simulacro per diventare la forma di educazione sentimentale prevalente
in Occidente; ha ispirato migliaia di canzoni e di romanzi di autori più o meno
famosi e le poesie insensatamente sentimentali di adolescenti e antiche signore.
È stato l’ispiratore di chilometri e chilometri di pellicola; è stato celebrato
in centinaia di festival e in suo nome sono stati attribuiti migliaia di premi.
È stato il sogno dell’Occidente per il Terzo mondo, ne ha guidato la via allo
sviluppo, è stato il faro per milioni di migranti.
La sua indefinibilità è solo apparente: al suo fondamento
c’è il principio di mediocrità. Il kitsch non ha pretesa di eccezionalità, ma ha
la capacità di offrire a poco prezzo una immediata riconoscibilità. Anche se
termini quali “straordinario”, “meraviglioso”, “sorprendente” fanno parte dei
suoi parafernali, nel kitsch il bello è Bello, il buono è Buono e l’amore è
Amore.
È l’Happy meal per tutti che cancella con un sorriso i danni
ambientali e alla salute. È McDonald che sponsorizza l’Expo. È la pornografia, sono
i viaggi organizzati e le crociere, i proclami elettorali, la fede applicata al
calcio e alla politica. È la fettina pre-impacchettata nel Domopak. È lo sballo
del sabato sera, la musica amplificata che sovrasta tutto e evita la difficoltà
di ogni comunicazione. È la comunione la domenica mattina alle 11,05, è la vita
vissuta di riflesso nei film. La sua onnipresente costituisce il vero legante
della nostra epoca; la sua inevitabilità è tale che, come per l’aria che
respiriamo, solo con uno sforzo di attenzione possiamo accorgerci di esserne
completamente immersi.
È dappertutto perché soddisfa due esigenze fondamentali
degli uomini: il bisogno di gratificazione e il risparmio emotivo e cognitivo (e
quindi economico). A poco prezzo ci fa
sentire migliori di quel che siamo: un farmaco contro l’insicurezza, nessuno di
fronte al kitsch si sente inadeguato.
Questa sua capacità di accogliere tutti ne fa il linguaggio
prediletto di chiunque cerchi di conquistare proseliti e fidelizzare seguaci. È
«l’ideale estetico – come ha sostenuto Kundera – di
tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici». Ecco
perché «In una società dove coesistono orientamenti politici diversi e dove
quindi la loro influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora
in qualche modo sfuggire all'inquisizione del Kitsch... Ma là dove un unico
movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del
Kitsch totalitario». Kundera scriveva prima della caduta del Muro. Non è
sorprendente quanto quella che era la satira di una feroce dittatura si adatti
oggi magnificamente alla falsa libertà del partito unico della nazione?
La democrazia è costosa? Vi offro qualcosa che vi si
avvicina, un succedaneo meno “caro” ma che vi soddisferà lo stesso. La
partecipazione difficile, faticosa? Tranquilli, c’è la Rete che ci viene in
soccorso con i suoi like, ideali per
garantire il dilagare di assolute banalità spacciate per straordinario, e per praticare
la ripetizione di luoghi comuni standard e emarginare con la pura forza dei
numeri i punti di vista dissonanti.
Andate dunque in pellegrinaggio in piazzetta di via Giovene:
vi vedrete celebrata, in nome de “i
gusti sono gusti e la validità del gusto la dà solo il numero dei mi piace”, la
saldatura fra la povertà di spirito di chi crede per fede e credendo acquista
la fede e il pensiero unico mascherato da finto principio democratico: avete
fatto caso a come questa “democratizzazione del gusto” faccia assonanza con le
campagna elettorali tarate su “chi ha la quinta elementare e non è neanche
tanto sveglio”?
Nessun commento:
Posta un commento